Palazzo Marcosanti-Ripa

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Per tutti i soci dell’associazione ITALIA LIBERTY nelle prime colline della Romagna, in provincia di Forlì-Cesena è possibile vivere un’esperienza unica nel segno dell’arte, della musica e del buon cibo con il rinomato formaggio di fossa.

All’interno del settecentesco Palazzo della Cultura Marcosanti-Ripa a Sogliano al Rubicone sono ubicati il Museo di Arte Povera e del Disco d’Epoca al cui interno sono conservati grandi e piccoli capolavori nel capo dell’arte e della musica che lo stesso professor Antonio Paolucci ha definito straordinari.


I soci di Italia Liberty possono entrare gratuitamente al Palazzo e usufruire di viste guidate riservate con prenotazione anticipata obbligatoria anch’esse gratuite. Per ulteriori informazioni scrivere a [email protected]

MUSEO DI ARTE POVERA

La storia

Venne istituito negli anni duemila all’interno del Palazzo Ripa-Marcosanti. Sono oltre mille proprietà artistiche: è tutta arte erroneamente definita secondaria, e che a fine Ottocento e inizi Novecento occupava la raffigurazione delle cartoline postali nonché dei giornali che in quel periodo trattavano di arte.

La stampa in cromolitografia (cromocolore, lithopietra, grafiastampa), raffigurava una bellezza che era nei sogni di tutte le fasce sociali. Non ci si può che stupire se in un semplicissimo cartoncino – praticamente una cartolina postale -, sia raffigurato un magnifico disegno di Mucha, Klimt, Kiernerk, Grasset, Dudovich, Vucetich, Cambellotti, Kirkner e tanti altri.

Un altro settore del Museo di Arte povera è quello dei libri confezionati ad arte: qui possono ammirare dei fac-simili. Il pubblico rimane estasiato dinnanzi alla bellezza e all’unicità di questi due volumi d’arte la cui copertina è un pezzo di marmo di Carrara scolpito. Qui si raccontano, in uno l’opera del Canova, nell’altro quella del Michelangelo.

A differenza della maggior parte dei musei internazionali, quello di Arte Povera permette la consultazione da parte del visitatore dei documenti in esposizione a guanti bianchi. Un emozionate viaggio a ritroso nel tempo sotto la guida esperta di Roberto Parenti, anima principale che ha donato identità – con opere d’arte di sua proprietà -, a questo sogno fiabesco tra le mura di un palazzo, che conserva inestimabili capolavori dell’arte internazionale.

L’emerito direttore dei Musei Vaticani, Antonio Paolucci, in una occasione di visita, rimase folgorato dalla storia del luogo e delle sue opere, definendo la collezione del Museo di Arte Povera “una piccola Biblioteca Malatestiana”.

Lasciati avvolgere da quest’atipica avventura romagnola con una visita al Museo d’Arte Povera, dove ammirare capolavori che hanno raccontato per immagini movimenti artistici come il Liberty, l’Art Nouveau, il Futurismo e l’Art Déco.

SITO UFFICIALE: www.museodiartepovera.com

Palazzo Marcosanti-Ripa, piazzetta Garibaldi – Sogliano al Rubicone – 47030 Forlì-Cesena.
Telefono : 0541.948418 (ufficio), 334.8592312 (Roberto Parenti), 366.3023594 (Davide Parenti)

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Ecco alcune cose da vedere…

Cromolitografia

Si tratta di un metodo che si sviluppa nel 1837 a partire dalla litografia (quest’ultima sperimentata dal tedesco Aloys Senefelder nel 1796). Consiste nel disegnare figure con una particolare matita grassa su una matrice di pietra. Dopo aver trattato la superficie della lastra litografica con una soluzione acida, si procede inumidendo la matrice dopo di che si inchiostra, utilizzando un rullo in pelle o in caucciù. L’inchiostro, a base oleosa, aderisce solo sui tratti disegnati con la matita grassa, mentre viene respinto dalla superficie umida della pietra. Nella successiva fase di stampa solo l’inchiostro che ha aderito al disegno viene impresso sul foglio di carta. Per ogni differente colore è necessaria una differente matrice. Grazie alla cromolitografia è quindi possibile utilizzare tanti colori, più velocemente, con maggiori sfumature e toni molto più brillanti. Nei primi tempi le cromolitografie erano senza scritte ed erano utilizzate come decorazione di oggetti (mobili, scatole, ventagli e contenitori di vari prodotti). Le immagini stampate venivano spesso ritagliate e usate per diversi passatempi (ad esempio, quello di ornare album e quaderni).

A partire dalla seconda metà dell’Ottocento iniziano a comparire immagini cromolitografiche stampate su fogli o cartoncini che pubblicizzano, con varie scritte, il prodotto da vendere. Famose restano ancora oggi in ambito collezionistico le prime serie di figurine Liebig emesse a partire dall’anno 1872. La realizzazione della vignetta era spesso affidata ad artisti del periodo, mentre la fase di stampa era realizzata con tecniche cromolitografiche fino a 12 colori. Agli inizi del Novecento questa tecnica venne (in linea di massima) abbandonata con la diffusione della fotografia. Non avvenne però così bruscamente. Addirittura sino agli inizi degli anni sessanta, sopravvissero nelle periferie italiane piccole stamperie litografiche artigianali che si servivano degli ultimi incisori o comunque disegnatori litografi. Nella storia della cromolitografia, il primo grande maestro è stato Jules Chéret. Egli portò questa tecnica dal livello sperimentale a quello di vera e propria forma d’arte. Chéret, infatti, non si limitò semplicemente a creare versioni colorate delle classiche litografie in bianco e nero, ma per primo riuscì a piegare il procedimento ai fini della resa pittorica.

Valantine

È un antico proverbio della tradizione contadina veneta e ribadisce l’ancestrale convinzione anche anglosassone che alla metà di febbraio gli uccelli scegliessero il proprio partner per insieme nidificare… E poiché il 14 febbraio è il dì che segna la metà di quel mese, e la liturgia cristiana ha assegnato quel giorno al culto di San Valentino, il santo in questione si è ritrovato d’ufficio, amorevole protettore degli innamorati senza colpo ferire. La festa che celebra l’amore è altrettanto antica e fonda le sue radici ai tempi della romanità imperiale, nei Lupercalia: le cerimonie del miracolo della primavera traslata alla fecondità femminile quindi all’amore, che si celebravano il 15 febbraio ed erano originariamente dedicate a Pan, il dio pastore e al fauno Luperco.

Le cerimonie dei Lupercalia ne implicavano una speciale dedicata a Giunone consistente nel tirare a sorte nomi di pueri e puellae designati a formare coppie che tali sarebbero rimaste per tutto l’anno seguente, che secondo il calendario romano cominciava in marzo. La coppia si sarebbe scambiata pegni d’amore e lui l’avrebbe colmata di attenta e amorata protezione durante tutto l’anno. Alla fine del Medioevo, San Valentino e il suo rito innamorato erano già ben radicati in Inghilterra dove vigeva l’uso tra gli “amanti” di scambiarsi doni per l’occasione che ovviamente venivano chiamati valentines. Alla corte della regina Elisabetta i d’Inghilterra (1558-1603) i valentines per le signore erano doni soprattutto di guanti e calze, ancora prive a quel tempo di maliziose connotazioni e Valentine era chiamato il pretendente amoroso più o meno designato, che poteva regalare come valentine l’anello di promessa. Alla fine del XVIII secolo, e più precisamente verso il 1760 i costosi regali per la festa di San Valentino furono man mano sostituiti da doni simbolici, da lettere e sonetti amorosi e da foglietti incisi, acquerellati, intagliati al canivet – la laicizzazione dei santini devozionali intagliati anche nella pergamena – sempre manufatti e manoscritti.

Da questi discendono i valentines divenuti molto popolari in Inghilterra e in Olanda, salpati per l’America e per le colonie inglesi, incrementando i sentimenti romantici delle popolazioni anglofone, costituiranno due secoli più tardi, il raffinato argomento di un collezionismo cartaceo specialistico. L’età d’oro della loro produzione e della loro diffusione si dipana dalla metà del xix secolo fino a circa gli anni Trenta del Novecento – soprattutto negli Stati Uniti i più tardi – seguendo l’evoluzione dell’industria della carta, delle figure in cromolitografia, dei punzoni per le carte traforate e quando, negli anni Novanta dell’Ottocento si mise a punto anche la tecnica per la produzione dei libri pop-up – l’editore Schreiber in Germania fu il primo a pubblicare, nel 1887, Der Internationaler Circus, di Lothar Meggendorf – si diffusero a macchia d’olio, fantastici valentines pop up, piatti quando chiusi che si aprono a teatrino con anche fino a cinque quinte ornatissime e coloratissime. La diffusione dapprima locale e segreta – le ragazze stavano in casa e i giovanotti lasciavano i loro biglietti nell’apposita cassetta lasciata fuori dalla porta – si allargò in maniera esponenziale quando nel 1840 l’emissione del francobollo di 1 penny da parte delle poste del Regno Unito consentirono la spedizione in massa degli anonimi messaggi amorosi nei giorni immediatamente precedenti la data fatidica. E ancora in piena epoca vittoriana, quando i valentines raggiunsero l’apice della popolarità, custoditi in buste altrettanto decorate smisero di essere privilegiato retaggio degli innamorati per diventare il pensiero amorato da inviare, il 14 febbraio, a tutti i componenti del personale ambito affettivo. Con genitori, nonni, fratelli, sorelle, con la parentela più o meno allargata, ma anche con l’amica del cuore, il compagno di scuola, la ragazza della porta accanto, si scambiavano, il giorno di San Valentino, tenere testimonianze della circostanziale affezione. In Italia la celebrazione affettuosa di San Valentino, prima praticamente sconosciuta, venne importata nel secondo dopoguerra del Novecento quando si entrò in connessione con il costume americano. Sebbene non mancassero tradizioni rituali e procedure allusive per dichiarare e scambiare sentimenti amorosi, ci fu allora qualche editore, di cui qui si ricorda Mondadori che, da quell’epoca, pubblicò cartoncini augurali per l’anniversario amoroso, assecondando una formulazione adatta al gusto e al disegno del tempo e ispirandosi anche ai disegni di Raymond Peynet (1908-1999), l’ultimo cantore degli innamorati e l’inventore dei filiformi amoureux che hanno in coppia attraversato la seconda metà del Novecento. Il Museo conserva rarissimi e numerosi Valentie, ne vanta circa 300 esemplari senza considerare i biglietti d’amore tridimensionali.

Pop-up

Il Museo di Arte Povera oltre alla ricca biblioteca di libri fac simili e libri d’arte, ha una pregiata e significativa collezione di libri animati, tridimensionali,con immagini in rilievo, dove è possibile non solo leggere incantevoli e magiche storie ma giocare e, con un semplice tocco scoprire … libri magici libri giocattolo, che non contengono solo immagini bidimensionali. Aprendo una sola pagina di questi preziosi libri si può ammirare una variegata quantità di figure da animare e di scenari prospettici. Attualmente la definizione pop-up, letteralmente “saltar su” (introdotto dall’editore Blue Ribbon Press negli anni trenta ed esteso successivamente a quasi tutti i libri che contenevano qualche “sorpresa” o parte mobile), è il modo convenzionale per indicare queste pubblicazioni, anche se, da qualche tempo, in America, si utilizza anche “interactive book”, forse mediando dal linguaggio informatico.

IL LIBRO MAGICO: UN PO DI STORIA La quasi totalità dei libri oggi in commercio viene progettata in America o in Inghilterra. L’interesse per i libri pop-up, se pur con una tradizione di oltre un secolo, è esploso commercialmente solo negli ultimi Diversamente da come si potrebbe pensare, dato che oggi questo tipo di pubblicazione si rivolge a bambini e ragazzi, la storia dei libri animati li vede nascere come strumento didattico per illustrare teorie e ricerche in campo scientifico. Fin dal XIV secolo, alcuni libri anatomici furono illustrati con la tecnica del “flap”, una aletta di carta che, sollevata, mostra l’interno del soggetto disegnato o cosa si nasconde sotto una superficie. Nel ‘500, l’astronomo tedesco Peter Apian, nel libro Cosmographia, intagliò alcune incisioni calcografiche e ne collegò le varie parti con fili sottili in modo che potessero ruotare l’una rispetto alle altre. Così egli intendeva aiutare la spiegazione e la trasmissione delle informazioni che aveva elaborato nei suoi studi sui corpi celesti. Per circa due secoli i libri animati restarono confinati fra gli strumenti didattici; solo verso la fine del ‘700 si avviò una produzione, che trattava temi legati allo spettacolo e al racconto tradizionale o fantastico e vennero pubblicati i primi libri “passatempo”. Una serie di giocattoli ottici anticiparono effetti e contenuti di molti libri tridimensionale stampati nella seconda metà del secolo XIX, effetti che si ritrovarono pure fra le pagine dei pop-up oggi pubblicati. Curiosi apparecchi che utilizzavano le immagini per creare effetti suggestivi, per suscitare la meraviglia e lo stupore, divennero molto popolari nel ‘700 e nell”800. Strumenti di origine scientifica, come la lanterna magica, gli specchi curvi per le anamorfosi, le macchine ottiche del precinema, furono trasformati per produrre spettacoli. Fra questi i pantoscopi , le scatole ottiche e i peep show i cui effetti modificati e semplificati, ritroveremo fra le pagine di molti libri pop-up. Nello stesso periodo si diffondeva la scatola ottica o diorama teatrale. Si presentava, all’esterno, come una piccola colonnina in legno, o una lunga scatola orizzontale più o meno decorata o intagliata, che poteva sembrare parte dell’arredamento se non fosse stato per un grande “occhio”, una lente, rivolto verso il centro della stanza. Sbirciando attraverso la lente, paesaggi, panorami o interni di palazzi in perfetta tridimensione, si rivelavano agli occhi dello spettatore. Nei primi anni del XIX secolo, i contenitori di legno vennero eliminati e si costruirono le prime scene a più piani utilizzando solo la carta come poi per i libri .

LE PRIME IMMAGINI LUDICHE Le prime immagini da animare a scopo ludico apparvero nella seconda metà del ‘700 create verso il 1760 dall’editore londinese Robert Sayer, le Harlequinades, o Metamorphoses Book o Turn Up Book, erano costituite da due immagini stampate su un unico foglio che, tagliato in quattro parti e ripiegato perpendicolarmente su se stesso, sovrapponeva i due disegni nascondendone uno. Sollevando le parti del foglio, le immagini si componevano in nuove combinazioni che davano un risvolto ironico o canzonatorio alla storia che si stava narrando. Sayer pubblicò diversi “racconti di Arlecchino” fra il 1765 e il 1772. Questi libretti divennero molto popolari, furono imitati da altri editori e venduti anche fuori dall’Inghilterra, ma a causa della scarsa qualità della carta su cui erano stampati e dell’usura provocata dai movimenti, le copie in buono stato giunte fino a noi sono poche. Rare sono anche le copie, ben conservate, delle pubblicazioni dalla casa editrice londinese S. and J. Fuller che fra il 1810 e il 1812, propose alcuni libri che contenevano, ognuno, sette o otto figure con abiti diversi, a cui mancava la testa. Questa era disegnata su un cartoncino staccato e aveva una lunga linguetta sotto il collo che doveva essere infilata nella scollatura dell’abito, permettendo così di “vestire” la bambola di carta con vari costumi. Qualche anno dopo, la stessa tecnica fu applicata ad immagini che rappresentavano ambienti di vita familiare che dovevano essere completati da figure che andavano inserite, con la medesima tecnica della linguetta, in invisibili fessure praticate in alcuni punti dell’immagine . Fra il 1860 e il 1900 Dean & Son pubblicò circa 50 titoli, utilizzando numerose tecniche di costruzione, tra i quali vanno ricordati Little Red Riding Hood (1864), considerato il primo libro tridimensionale e gli altri scenic book Robinson Crusoe, Cinderella e Aladdin. Ogni illustrazione era scomposta su tre o quattro piani intagliati e collegati con listarelle di cartoncino. Tirando il nastro collocato sul retro del cartoncino che costituiva lo sfondo, la pagina veniva sollevata verticalmente e i piani si alzavano creando un effetto di prospettiva. Il testo era stampato sulla pagina orizzontale ed era visibile solo quando l’illustrazione veniva alzata. Molti libri della Dean & Son furono pubblicati anche negli Stati Uniti, dalla Casa Editrice E. P. Dutton.

Negli anni successivi altri editori londinesi si cimentarono nella realizzazione di libri animati e tridimensionali, fra questi Raphael Tuck (1821-1900), un emigrato di origine tedesca, che aveva fondato nel 1870, insieme ai figli, una casa editrice che in breve tempo era diventata famosa per la qualità delle sue produzioni. Bambole di carta, decorazioni, giochi, biglietti venivano progettati negli studi di Londra, ma stampati dagli abili tecnici delle industrie tedesche. Dopo il 1882, in seguito al pensionamento del padre, il nome della casa editrice si trasformò in Raphael Tuck & Sons e iniziò la produzione dei libri animati e tridimensionali. Come quelli della Dean & Son, i libri animati della Raphael Tuck & Sons, proponevano immagini che si alzavano dallo sfondo aprendo il libro o si animavano tirando una linguetta di cartoncino. Gruppi di bambini e animali domestici ne erano i protagonisti. Fra i libri più belli troviamo quelli della Father Tuck Mechanical Series pubblicati attorno al 1890 e il volume Summer surprises (1896) in cui sono contenute splendide pagine tridimensionali ripubblicate alcuni anni fa, con successo, in tutta Europa (in Italia dalla Rizzoli con i titoli Al mare e In campagna). In Germania, per la tradizione ed esperienza nella stampa a colori, furono molti gli editori che si cimentarono nella produzione di libri animati e tridimensionali. Una delle produzioni più interessanti è quella legata a Ernest Nister (1842-?) e alla sua casa editrice che cominciò a pubblicare libri per bambini verso il 1880. La sua attività si svolse fra Norimberga – dove avevano sede gli studi in cui le sue opere venivano progettate e realizzate – e Londra, dove aveva aperto un ufficio commerciale. Grazie ad un accordo con la E. P. Dutton di New York, molti dei suoi libri furono venduti anche negli Stati Uniti. Con lui lavoravano illustratori di talento, infatti i disegni delle edizioni Nister hanno uno stile inconfondibile. Vi troviamo rappresentati bambini paffuti e sereni che si immedesimano nei ruoli degli adulti oppure giocano in compagnia di simpatici animali. Poesie e filastrocche, le stagioni, i giochi, il mare, il Natale sono temi ricorrenti nella sua produzione. Oltre a migliorare la qualità dei tradizionali libri mobili, gli artisti e i tecnici della Casa Editrice Nister inventarono nuove soluzioni tecniche. Le illustrazioni delle sue opere si alzavano dal foglio grazie a impalcature di linguette in cartoncino e tessuto (come Wild animal stories o Peeps into Fairy Land); si dissolvevano l’una nell’altra perché divise in listarelle orizzontali o a spicchi che si intrecciavano tirando una leva in cartoncino (come Playtime surprises) o ruotando un nastro lungo il perimetro dell’immagine (come Revolving pictures o Surprising Pictures) si completavano osservandole in trasparenza (come The Magic Toy Book). Negli anni ottanta i libri di Nister sono stati ristampati in tutto il mondo, ma in molti casi le pubblicazioni non sono fedeli alla versione originale, sia per le dimensioni che per il numero di illustrazioni contenute nella versione originale. In alcuni casi si tratta di creazioni di autori moderni che hanno animato immagini tratte dai suoi libri. Lothar Meggendorfer (1847-1925), il “genio” inventore dei libri meccanici più complessi fin ora creati, nacque a Monaco, in Germania. All’inizio del secolo il suo nome era molto conosciuto sia fra gli adulti che fra i bambini, ma poco per volta è stato dimenticato. Nel 1860, in seguito alla morte del padre, dovette abbandonare la scuola. Dopo due anni, grazie all’interessamento di un amico che riconobbe il suo talento, cominciò a frequentare l’Accademia d’Arte di Monaco. Nel 1866 entrò nello staff della rivista umoristica Fliegende Blatter (Fogli Volanti) e in seguito collaborò anche con altre pubblicazioni, ma disegnare e colorare non gli bastava. Lo interessavano certi biglietti d’auguri per bambini che presentavano immagini mobili o in rilievo. Si dice che, prendendo spunto da questi, Meggendorfer costruisse, come regalo di Natale per i suoi figli, un libro con figure che si muovevano come marionette. Egli aveva intagliato alcune parti delle figure disegnate su un foglio e le aveva fissate allo sfondo con piccole spirali di metallo collegate fra loro con listarelle di cartone nascoste fra le pagine. Tirando una piccola leva che spuntava dal bordo del foglio, le figure si animavano. Quello fu il prototipo del primo dei tanti libri che preparò, per i quali realizzò sorprendenti meccanismi che gli permettevano di far compiere ai protagonisti dei suoi disegni fino a cinque o sei movimenti contemporaneamente e in direzioni diverse, quando le immagini realizzate dagli altri autori ne compivano uno o due la volta.

Realizzò anche opere tridimensionali, come Im Stadtpark, Das Puppenhaus e Internationaler Circus il suo libro più famoso, ma di Meggendorfer va apprezzata soprattutto l’ingegnosità che dimostrò nell’escogitare meccanismi per animare le figure che illustravano le sue filastrocche, che gli consentì di creare veri capolavori di ingegneria cartotecnica. Alcuni suoi libri furono pubblicati in Italia dall’editore Hoepli. La produzione di libri pop-up fuori dalla Germania e dall’Inghilterra fu quantitativamente più modesta. In Francia vanno ricordate le pubblicazioni di A. Capendu di Parigi, piccoli scenari teatrali e libri animati, che somigliano alle opere della Dean & Son. In Italia si ebbe una produzione di buon interesse artistico, ma di tiratura limitata. Qualche volta è difficile datare esattamente i libri di quel periodo, perché “restauri” compiuti da mani poco esperte, sostituzioni di copertine o smarrimento di frontespizi, hanno privato i testi di riferimenti editoriali Con Hoepli (che tradusse all’inizio del secolo alcuni titoli di Meggendorfer e negli anni quaranta propose tre grandi carousel, i Libroteatro Hoepli), fra i primi a pubblicare storie appartenenti alla tradizione italiana troviamo gli editori Treves, Bemporad, Vallardi e il fiorentino R. Franceschini & F. che negli anni quaranta propose libri con “figure animate”, con meccanismi molto semplici. Nel periodo fra le due guerre, poche case editrici continuarono a proporre nei loro cataloghi libri animati e tridimensionali. Si tornò alla produzione di singoli fogli, biglietti augurali o souvenir per avvenimenti importanti e nessun autore si distinse per creatività o apporti innovativi fino al 1929, quando a Londra fu pubblicato il primo libro di J. L. Giroud. Carta e stampa non avevano certo la qualità e la raffinatezza di quelle utilizzate per le opere degli autori precedenti, ma i costi contenuti e una nuova, semplice, tecnica capace di creare effetti originali e molto piacevoli fece dei libri di Giroud un vero successo editoriale e le sue opere diventarono molto popolari in Inghilterra negli anni fra le due guerre. Fra il 1929 e il 1934 egli realizzò le animazioni per gli annuali del Daily Express. Più tardi fondò la Strand Pubblications con cui pubblicò, fra il 1934 e il 1950, i 17 titoli della serie Bookano Stories. Il testo occupava la maggior parte del volume che conteneva da 3 a 6 figure pop-up – pictures that spring up in Model Form – che si alzavano quando il libro veniva aperto e occupavano lo spazio di due facciate; alcune figure si muovevano se le pagine venivano, in parte, chiuse e aperte con movimenti ripetuti. Chi introdusse il termine pop-up, per indicare i libri che avevano illustrazioni tridimensionali o animate, fu la Blue Ribbon Press di New York.

Fra le sue pubblicazioni più conosciute troviamo i quattro pop-up che hanno per protagonisti i personaggi Disney usciti fra il 1933 e il 1934. Qualche anno dopo, la Pleasure Books Inc. Chicago, dello stesso gruppo editoriale, realizzò altri libri con protagonisti che appartenevano al mondo dei fumetti: Buck Rogers, Tarzan, Flash Gordon, Tim Tyler, Dick Tracy, Little Orphan. Negli anni quaranta ripresero anche le pubblicazioni della McLoughlin Bros. che aveva editato, dal 1880 alla fine del secolo, giochi di carta e libri animati che avevano avuto un buon successo commerciale. Nel 1939 pubblicò i primi titoli della serie Jolly Jumps che si rivelarono, con i volumi editati negli anni successivi, una produzione di notevole interesse artistico. Il rilancio della produzione si ebbe però al principio degli anni sessanta. Iniziò la Bancroft Publishing, di Londra, diffondendo le pubblicazioni della Artia di Praga (in Italia tradotte dalla Cino del Duca Editore) illustrate da Voitec Kubasta. Nelle sue opere questo autore seppe rinnovare la tecnica più semplice ed elementare per costruire una immagine su più piani: tutta l’illustrazione, comprese le parti che saranno poste in rilievo grazie ad incisioni e piegature, è disegnata direttamente su un unico foglio. Questo prevede che una immagine venga costruita con elementi disegnati da punti di vista prospettici diversi. Fino a quel momento legata ad una produzione editoriale minore (ne sono un esempio in Italia i titoli delle edizioni Mediterranee degli anni quaranta e quelli dell’editore Piccoli negli anni sessanta), questa tecnica raggiunse con Kubasta la massima espressione artistica. Molti autori si sono cimentati, in seguito, con queste strategie tecniche che permettono di ottenere belle soluzioni volumetriche con costi contenuti, tuttavia le opere di Kubasta conservano una originalità e un fascino tutti particolari, non ancora eguagliati. Il “nome” più importante nella storia contemporanea dei pop-up è quello di Waldo Hunt che da appassionato collezionista ne è divenuto il maggiore produttore. Hunt vide il primo libro pop-up in Germania, durante la seconda guerra mondiale e ne rimase affascinato. Nel 1960 fondò la Graphics International, poi confluita nella Hallmark, con cui pubblicò oltre 30 titoli tradotti in molte lingue (in italiano dalla Mondadori). Nel 1975 avviò, a Los Angeles, l’Intervisual Communication, la più importante casa di produzione di libri pop-up che oggi propone ogni anno decine di nuovi titoli che vengono pubblicati in tutto il mondo. Con Hunt hanno lavorato i più bravi paper engeneers, fra cui ricordiamo Ron Van Der Meer, Keith Moseley, Rodger Smith, mentre altri si sono formati professionalmente negli studi della Intervisual fra cui Dick Dudley, Pat Paris, e James Roger Diaz che ora hanno intrapreso un attività indipendente. I libri “mobili” creati negli ultimi anni mostrano costruzioni sempre più complesse e affascinanti e la sorpresa che si prova sfogliando queste pagine è ancora maggiore nelle opere in cui sono stati inseriti anche i suoni o luci. Negli ultimi venti anni tanti illustratori, paper engeneers, creativi hanno contribuito con il loro talento ad arricchire la sorprendente ingegneria di carta racchiusa nel libri tridimensionali e meccanici di Ernest Nister e Lothar Meggendorfer proponendo ai lettori pagine sempre più elaborate e imprevedibili, pagine che incantano e stupiscono e che appartengono al magico mondo della fantasia anche quando raccontano la vita reale o simulano il funzionamento di una macchina, del corpo umano, i misteri dell’universo o aiutano ad imparare a leggere. Tranne pochi casi, i libri che oggi troviamo sul mercato in tutto il mondo vengono realizzati in Cina, Colombia e a Singapore dove hanno sede importanti case di produzione che riescono, grazie alla qualità di stampa raggiunta e ai tempi brevi di preparazione, ad assemblare manualmente migliaia di copie per ogni titolo.

MUSEO DEL DISCO D’EPOCA

La storia

Nel valutare le invenzioni dell’ultimo secolo, dobbiamo dare un grande risalto alla registrazione sonora. Prova ne sia che i sofisticati sistemi informatici hanno alla base la registrazione di un segnale. I dischi da grammofono, conosciuti come 78 giri o dischi in gommalacca, spesso gettati via dopo l’invenzione del microsolco, sono oggi diventati oggetti da collezione di grande richiesta.

…Maria aveva un agnellino, il mantello era bianco come la neve e dovunque Maria andasse l’agnellino non mancava di andare…

Questa popolare filastrocca americana, fu “gridata” da Thomas Alva Edison nel tubo collegato al primo rudimentale fonografo, e con enorme sorpresa dello stesso inventore, riuscì ad essere riprodotto molto chiaramente. La prima volta che Edison riuscì a registrare il suono, fu nel 6 dicembre del 1877. Fu la prima volta in assoluto che una macchina incidesse e riproducesse “fedelmente” la voce umana ovvero un segnale, leggendo i solchi incisi su di un cilindro di materiale ceroso (in verità la prima incisione della storia la si deve al succitato Scott ben 17 anni prima di Edison Fonte). Da quell’empirico primo cilindro all’ultima registrazione laser, come può essere un cd odierno, il processo evolutivo lo si può solo immaginare e non si può certo avere la pretesa che le pagine di un libro, o quant’altro, possano svelare l’innumerevole serie di modifiche e perfezionamenti avvenuti in più di 130 anni, in quanto molto degli stessi, sono rilevabili solo visibilmente.

Beatles o Caruso? Non ha importanza. L’importante è che il disco in questo museo parli di se stesso.

Tanto si è voluto nel dar vita a tale iniziativa culturale; documentare al visitatore l’evoluzione della registrazione sonora, come inizio il cilindro in cera e per non arrivare mai, in quanto il museo è sempre pronto ad aggironarsi per quanto riguarda le novità tecnologiche. In questo percorso vengono evidenziate le diverse particolarità del disco nei suoi 130 anni di vita.

Breve storia della registrazione sonora

La storia della registrazione del suono parte all’incirca dal 1857 quando Eduard-Leon Scott ideò un apparecchio, il fonoautografo, in grado di trascrivere graficamente le onde sonore su un mezzo visibile, ma non era in grado di riprodurre il suono registrato. L’apparecchio era costituito da un corno che catturava e confluiva il suono su una membrana alla quale era fissata una setola di maiale. Inizialmente la setola “incideva” il suo tracciato su un vetro annerito col fumo, successivamente fu impiegato un foglio di carta annerito fissato su un cilindro. Nella sua concezione il fonoautografo risulta simile al fonografo realizzato e brevettato da Thomas Alva Edison nel 1877. Edison pensava di aver creato un utilie macchina da ufficio, infatti la prima applicazione che trovò per il suo fonografo fu la registrazione di accordi commerciali. Nacque così il “Dictaphone“, marchio registrato dalla Columbia Graphophone nel 1907. In anticipo di qualche mese su Edison, il francese Charles Cros teorizzò a sua volta la possibilità di imprimere un suono su un supporto meccanico per poi riprodurlo, idea che non riuscì mai a concretizzare per motivi economici. Dopo pochi anni di commercializzazione del fonografo, grazie a Emile Berliner iniziò l’evoluzione che portò il cilindro a diventare disco, che fu introdotto nel mercato nel 1892 insieme all’apparecchio in grado di riprodurlo, il grammofono. Cilindro e disco convissero insieme fino al 1929 quando vista la superiorità di diffusione del disco, Edison cessò la produzione dei cilindri. I dischi di Berliner furono gli antenati dei dischi in vinile a 78, 45 e 33 giri, e le altre tipologie in uso nel XX secolo.

Il Microsolco

Il microsolco fu ultimato alla fine della seconda guerra mondiale, ma iniziò la sua diffusione qualche anno dopo, all’inizio degli anni 50. Inizialmente il microsolco era un 78 giri migliorato, la velocità di riproduzione essendo più lenta permetteva la registrazione di più musica e il materiale utilizzato era di tipo resinoso, il quale permetteva un incisione più raffinata e con migliori proprietà elettroacustiche. Questa fu la genesi di quella evoluzione che portò il microsolco all’attuale stato definito oggi come “Alta fedeltà“, ma il processo di miglioramento non è ancora ultimato.

ale come Maria Callas, il romagnolo Alessandro Bonci, Enrico Caruso, Luciano Pavarotti, Fabrizio De Andrè, Giorgio Gaber, Beatles, Rolling Stones, Led Zeppelin

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