Palazzo Marcosanti-Ripa

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Per tutti i soci dell’associazione ITALIA LIBERTY nelle prime colline della Romagna, in provincia di Forlì-Cesena è possibile vivere un’esperienza unica nel segno dell’arte, della musica e del buon cibo con il rinomato formaggio di fossa.

All’interno del settecentesco Palazzo della Cultura Marcosanti-Ripa a Sogliano al Rubicone sono ubicati il Museo di Arte Povera e del Disco d’Epoca al cui interno sono conservati grandi e piccoli capolavori nel capo dell’arte e della musica che lo stesso professor Antonio Paolucci ha definito straordinari.


I soci di Italia Liberty possono entrare gratuitamente al Palazzo e usufruire di viste guidate riservate con prenotazione anticipata obbligatoria anch’esse gratuite. Per ulteriori informazioni scrivere a [email protected]

MUSEO DI ARTE POVERA

La storia

Fondato nei primi anni Duemila, questo museo rappresenta un omaggio alla cosiddetta “arte secondaria”: manifesti, cartoline, copertine illustrate, giornali d’epoca e oggetti stampati che hanno veicolato, in modo diretto e popolare, i movimenti artistici del tardo Ottocento e del primo Novecento, come il Liberty, l’Art Nouveau, il Futurismo e l’Art Déco.

Tra le opere esposte, si possono ammirare riproduzioni raffinatissime firmate da grandi maestri come Mucha, Klimt, Grasset, Dudovich, Cambellotti, la cui arte ha raggiunto il pubblico attraverso semplici cartoncini o riviste illustrate. L’emozione nasce proprio da qui: scoprire la bellezza racchiusa in un piccolo oggetto quotidiano, capace però di evocare mondi e sogni lontani.

Una sezione affascinante è dedicata ai libri d’arte confezionati ad arte, come due preziosissimi volumi ispirati alle opere di Canova e Michelangelo, le cui copertine sono realizzate in marmo scolpito di Carrara, un connubio straordinario tra arte visiva e oggetto libro.

A rendere il tutto ancora più speciale, è la possibilità di consultare direttamente i documenti in esposizione – un’esperienza inusuale per un museo – utilizzando guanti bianchi. Un gesto che trasforma la visita in un viaggio intimo e tangibile nel tempo, sotto la guida di Roberto Parenti, collezionista e fondatore, vera anima del progetto.

SITO UFFICIALE: www.museodiartepovera.com

Palazzo Marcosanti-Ripa, piazzetta Garibaldi – Sogliano al Rubicone – 47030 Forlì-Cesena.
Telefono : 0541.948418

Ecco alcune cose da vedere…

Cromolitografia

La cromolitografia è una raffinata tecnica di stampa a colori che nasce nel 1837 come evoluzione della litografia, quest’ultima inventata nel 1796 dal tedesco Aloys Senefelder. Mentre la litografia permetteva la riproduzione di disegni in bianco e nero tramite un processo chimico e meccanico, la cromolitografia introdusse la possibilità di stampare immagini policrome, aprendo le porte a una nuova era nella produzione artistica e commerciale di massa.

Il procedimento era tanto complesso quanto ingegnoso. Si partiva da una matrice di pietra calcarea, sulla quale si disegnava l’immagine desiderata utilizzando una matita grassa. La pietra veniva poi trattata con una soluzione acida e gommosa, che fissava il disegno e creava una distinzione chimica tra le aree destinate a ricevere l’inchiostro e quelle da mantenere pulite. A questo punto si inumidiva la matrice con acqua: le zone non disegnate, essendo idrofile, trattenevano l’umidità, mentre quelle disegnate con la matita grassa, idrofobe, la respingevano. Successivamente si applicava l’inchiostro – a base oleosa – con un rullo in pelle o caucciù: esso aderiva soltanto alle aree grasse del disegno, venendo respinto da quelle umide. Infine, la lastra veniva pressata contro il foglio di carta, trasferendo l’immagine.

Per ottenere una stampa a più colori, era necessario ripetere il processo per ogni tonalità desiderata, utilizzando una matrice diversa perfettamente allineata per ciascun passaggio. Alcune stampe più complesse potevano richiedere fino a 12 lastre, ognuna corrispondente a un colore specifico. Il risultato era un’immagine dai toni brillanti, dettagliati e ricchi di sfumature, impossibili da ottenere con tecniche precedenti.

Inizialmente, le cromolitografie non contenevano testi e venivano impiegate prevalentemente come elementi decorativi: adornavano mobili, scatole, ventagli e confezioni di vario genere. Le immagini stampate erano spesso ritagliate e utilizzate per passatempo domestici, come l’abbellimento di album e quaderni.

Dalla seconda metà dell’Ottocento, la cromolitografia trovò larga diffusione anche nel mondo della pubblicità. Le immagini venivano stampate su fogli o cartoncini corredati da testi promozionali, diventando strumenti di comunicazione visiva per i più diversi prodotti. Uno degli esempi più celebri fu la produzione delle figurine Liebig, piccole opere d’arte stampate in serie a partire dal 1872, diventate nel tempo veri e propri oggetti da collezione. Le illustrazioni erano spesso affidate a artisti professionisti, mentre la stampa veniva realizzata con grande perizia tecnica.

Con l’avvento della fotografia e della stampa offset nei primi decenni del Novecento, la cromolitografia cominciò a declinare, ma non scomparve del tutto. In alcune botteghe litografiche artigianali italiane, soprattutto nelle zone periferiche, la tecnica sopravvisse fino agli anni Sessanta, grazie agli ultimi incisori e disegnatori litografi che ne custodivano ancora i segreti.

Un ruolo fondamentale nella trasformazione della cromolitografia in vera arte lo ebbe Jules Chéret, artista e innovatore francese considerato uno dei padri del manifesto moderno. Chéret non si limitò a riprodurre versioni colorate di immagini in bianco e nero: fu il primo a sfruttare il potenziale pittorico della tecnica, dando vita a opere vivaci e raffinate, caratterizzate da una resa cromatica vibrante e armoniosa. Grazie a lui, la cromolitografia superò i limiti della riproduzione meccanica per diventare un linguaggio artistico autonomo, capace di unire bellezza, comunicazione e diffusione.

Valantine

La tradizione di San Valentino come festa degli innamorati affonda le sue radici in antichi riti pagani, in particolare nei Lupercalia romani, celebrazioni dedicate alla fertilità e all’amore, che si tenevano a metà febbraio. In epoca cristiana, il 14 febbraio fu dedicato a San Valentino, che divenne simbolicamente il patrono degli innamorati, anche per via di una credenza diffusa secondo cui, proprio in quei giorni, gli uccelli sceglievano il proprio compagno per nidificare.

Nel Medioevo, soprattutto in Inghilterra, prese piede l’usanza di scambiarsi doni e messaggi amorosi, chiamati valentines. Alla corte di Elisabetta I, questi doni erano spesso guanti, calze o piccoli pegni d’affetto. Dal XVIII secolo, i regali costosi vennero sostituiti da biglietti decorati, lettere e versi poetici, spesso realizzati a mano.

Questi valentines, diventati popolari in Inghilterra e in Olanda, raggiunsero poi l’America, contribuendo alla diffusione della tradizione. L’età d’oro di queste cartoline d’amore va dalla metà dell’Ottocento agli anni Trenta del Novecento, periodo in cui si svilupparono anche versioni pop-up riccamente illustrate.

Con l’introduzione del francobollo da un penny nel 1840, la spedizione di valentines crebbe notevolmente, trasformando la festa in una celebrazione non solo per gli innamorati, ma anche tra amici e familiari.

In Italia, la festività divenne popolare solo dopo la Seconda guerra mondiale, grazie all’influenza americana. Editori come Mondadori iniziarono a stampare cartoline augurali ispirate allo stile romantico di Raymond Peynet, autore dei celebri “amoureux”.

Il Museo di Arte Povera conserva una preziosa collezione di circa 300 valentines, inclusi rari esemplari tridimensionali, testimoni di una lunga storia d’amore tra arte, carta e sentimento.

Pop-up

All’interno del Museo di Arte Povera è custodita una straordinaria collezione di libri animati, tridimensionali e interattivi, veri e propri capolavori di ingegneria cartotecnica. Non si tratta solo di volumi da leggere, ma di oggetti sorprendenti da esplorare con occhi e mani. Aprendo una pagina, si attivano meccanismi nascosti, si innalzano scenografie teatrali, si muovono figure in rilievo: ogni libro diventa un piccolo spettacolo, una narrazione in tre dimensioni che incanta, stupisce e diverte.

Questi volumi, oggi comunemente noti come pop-up (termine introdotto dall’editore americano Blue Ribbon Press negli anni Trenta del Novecento), sono conosciuti anche come libri giocattolo o interactive books. Pur rivolti oggi prevalentemente a un pubblico infantile, hanno origini antiche e illustri.

Fin dal XIV secolo, infatti, i primi libri animati vennero utilizzati come strumenti scientifici e didattici, ad esempio per spiegare l’anatomia umana o i movimenti celesti. Uno dei primi esempi documentati è il lavoro dell’astronomo tedesco Peter Apian, che nel Cinquecento realizzò il libro Cosmographia, con illustrazioni mobili collegate da fili per rappresentare l’orbita dei pianeti.

Per lungo tempo i libri animati restarono confinati all’ambito educativo. Solo verso la fine del XVIII secolo iniziarono a comparire le prime produzioni a scopo ludico e narrativo, con racconti fantastici e decorazioni animate. Gli effetti visivi di questi libri si ispiravano anche a dispositivi ottici e teatrali, come le lanterne magiche, gli specchi anamorfici, i diorami e i peep show, anticipando quella meraviglia visiva che ritroviamo ancora oggi nei pop-up.

Nel XVIII e XIX secolo, con l’avvento della stampa illustrata e lo sviluppo delle tecniche di taglio e piegatura, la produzione di libri animati si ampliò rapidamente. A Londra, l’editore Robert Sayer ideò le Harlequinades, libriccini che, grazie a semplici pieghe e tagli, permettevano di trasformare un’immagine in un’altra, spesso con intento ironico o comico. Queste pubblicazioni ebbero grande successo e vennero imitate in tutta Europa.

Nella seconda metà dell’Ottocento, il fenomeno si diffuse capillarmente grazie ad alcune importanti case editrici, tra cui Dean & Son e Raphael Tuck & Sons, che introdussero sofisticati meccanismi a più livelli per ottenere profondità prospettica e movimento. I loro libri raccontavano fiabe classiche come Cenerentola, Cappuccetto Rosso, Aladino, utilizzando illustrazioni scomposte su più piani e collegate da linguette e nastri.

Contemporaneamente, in Germania, l’editore e illustratore Ernest Nister creò una serie di libri raffinati, impreziositi da tavole mobili, disegni poetici e soluzioni tecniche innovative. Le sue opere conquistarono anche il mercato anglosassone grazie alla collaborazione con la E. P. Dutton di New York. Sempre in Germania, il geniale Lothar Meggendorfer elevò il libro animato a livello di arte ingegneristica: i suoi personaggi si muovevano in più direzioni contemporaneamente grazie a complessi sistemi nascosti, anticipando di fatto la moderna animazione meccanica su carta.

Nel corso del Novecento, dopo una breve pausa tra le due guerre, i libri pop-up tornarono alla ribalta. A Londra, J. L. Giroud pubblicò i celebri Bookano Stories, mentre negli Stati Uniti, la Blue Ribbon Press lanciò i primi volumi tridimensionali con personaggi Disney. Negli anni ’60, l’interesse per i libri animati si rinnovò grazie a Voitec Kubasta, illustratore ceco che realizzava illustrazioni tridimensionali interamente su un unico foglio, raggiungendo effetti visivi sorprendenti con soluzioni semplici ed economiche.

Una figura centrale nel rilancio internazionale del settore fu Waldo Hunt, collezionista americano diventato il più importante produttore di libri pop-up del XX secolo. Attraverso le sue aziende, pubblicò decine di titoli tradotti in tutto il mondo, collaborando con i migliori paper engineers del panorama internazionale.

Oggi, la produzione di libri animati è affidata a grandi centri di stampa in Cina, Colombia e Singapore, dove l’abilità artigianale si unisce alla precisione tecnologica. Le pubblicazioni contemporanee includono effetti sonori, luci e interazioni tattili, trasformando ogni pagina in un’esperienza multisensoriale.

Il Museo di Arte Povera conserva una selezione pregiata e storicamente rilevante di questi volumi: dai prototipi ottocenteschi ai moderni capolavori illustrati, dai semplici meccanismi a linguetta alle complesse costruzioni a più piani. Ogni libro è una finestra su un mondo narrativo tridimensionale, dove la carta si anima, la storia si fa spazio, e il lettore diventa protagonista attivo dell’avventura.

MUSEO DEL DISCO D’EPOCA

La storia

Accanto al Museo di Arte Povera, il Museo del Disco d’Epoca racconta una delle più affascinanti avventure tecnologiche e culturali dell’umanità: quella della registrazione sonora. Dalla prima voce umana impressa su un cilindro di cera da Thomas Edison nel 1877, fino all’era digitale, questo museo raccoglie dischi, grammofoni, fonografi e registratori, oggetti che documentano con cura più di un secolo di storia della musica registrata.

Il percorso include rarissimi 78 giri in gommalacca, microsolchi, e una sezione dedicata agli artisti che hanno fatto la storia: da Maria Callas a Caruso, da Fabrizio De André a Pavarotti, passando per i grandi nomi del rock come i Beatles, Rolling Stones e Led Zeppelin.

Breve storia della registrazione sonora

La storia della registrazione sonora affonda le sue radici nella metà del XIX secolo. È precisamente nel 1857 che l’inventore francese Édouard-Léon Scott de Martinville concepisce e costruisce un dispositivo pionieristico chiamato fonoautografo. Questo strumento, sebbene rudimentale, rappresenta il primo tentativo nella storia dell’umanità di catturare e “fissare” il suono in forma visiva. Il fonoautografo, tuttavia, non era in grado di riprodurre il suono registrato, ma si limitava a trascrivere graficamente le onde sonore su un supporto materiale.

Il suo funzionamento era ingegnoso: un corno acustico captava i suoni dell’ambiente, convogliandoli verso una membrana vibrante. Su questa membrana era fissata una setola di maiale, che serviva da stilo e tracciava il movimento delle onde sonore su un supporto annerito – inizialmente un vetro affumicato, successivamente sostituito da carta annerita fissata su un cilindro rotante. In questo modo, le vibrazioni del suono venivano trasformate in linee ondulate, visibili ma non udibili.

Questo approccio visionario anticipava, almeno nel principio, il più noto fonografo che Thomas Alva Edison avrebbe brevettato nel 1877, vent’anni dopo. Edison, a differenza di Scott, riuscì a compiere il passo decisivo: non solo registrare, ma riprodurre il suono inciso. Il suo dispositivo, capace di incidere la voce su un cilindro ricoperto di cera, fu una rivoluzione. Curiosamente, Edison non pensava inizialmente alla musica o all’intrattenimento: immaginava il suo fonografo come una macchina da ufficio, utile per registrare dettature e accordi commerciali. Questa intuizione diede poi origine al celebre Dictaphone, marchio registrato nel 1907 dalla Columbia Graphophone.

È interessante notare che, qualche mese prima di Edison, un altro francese, Charles Cros, aveva a sua volta ipotizzato la possibilità di imprimere un suono su un supporto meccanico per poi riprodurlo. Tuttavia, le sue teorie rimasero solo sulla carta a causa della mancanza di fondi per concretizzarle.

Pochi anni dopo la commercializzazione del fonografo, un altro grande innovatore cambiò radicalmente il corso della storia della registrazione: Emile Berliner. Fu lui, alla fine dell’Ottocento, a introdurre un nuovo supporto di registrazione: il disco. Nel 1892, insieme al suo riproduttore chiamato grammofono, il disco fece la sua comparsa sul mercato, affiancando – e poi superando – il cilindro di Edison.

Per un periodo, cilindri e dischi coesistettero nel mercato della registrazione sonora, ma la maggiore facilità di produzione e distribuzione del disco ne decretò presto il successo definitivo. Nel 1929, Edison cessò ufficialmente la produzione di cilindri, sancendo l’era del disco come formato dominante.

I dischi introdotti da Berliner, realizzati inizialmente in gommalacca, furono i precursori dei vinili che avrebbero conquistato il XX secolo: i celebri 78 giri, seguiti più tardi dai 45 e 33 giri, formati che ancora oggi evocano il fascino insostituibile del suono analogico.

Il Microsolco

Lo sviluppo del microsolco, uno dei passaggi fondamentali nella storia della riproduzione sonora, giunse a compimento verso la fine della Seconda guerra mondiale. Tuttavia, la sua vera diffusione su scala commerciale ebbe inizio solo qualche anno più tardi, nei primi anni Cinquanta, quando il mercato discografico era ormai pronto ad accogliere una tecnologia più avanzata, capace di offrire prestazioni nettamente superiori rispetto ai supporti precedenti.

Inizialmente, il disco microsolco rappresentava un’evoluzione del tradizionale 78 giri: pur mantenendone in parte la forma e la logica, si distingueva per alcune caratteristiche tecniche rivoluzionarie. La velocità di rotazione più lenta – tipicamente 33⅓ o 45 giri al minuto – consentiva di registrare una quantità maggiore di musica per ciascun lato del disco, migliorando così sia la durata d’ascolto sia la praticità d’uso.

Ma il vero salto di qualità risiedeva nel materiale di fabbricazione e nella finitura del solco stesso. Il microsolco veniva inciso su dischi realizzati in vinile, una resina plastica molto più flessibile e resistente rispetto alla fragilissima gommalacca usata nei dischi precedenti. Questo materiale permetteva una maggiore precisione nell’incisione del solco, che poteva ora essere più stretto e profondo, riducendo il rumore di fondo e restituendo un suono più nitido e dettagliato. Il risultato fu un notevole miglioramento delle qualità elettroacustiche, con una resa sonora più fedele e ricca di sfumature.

Questa innovazione rappresentò la nascita di un concetto nuovo, destinato a diventare sinonimo di eccellenza nell’ascolto musicale: l’Alta Fedeltà – o Hi-Fi – termine che definisce non solo una tecnologia, ma un approccio culturale all’esperienza d’ascolto, improntato alla ricerca della massima autenticità nella riproduzione del suono.

Nonostante i grandi traguardi raggiunti, il percorso evolutivo del microsolco non può dirsi concluso. Nel corso dei decenni, numerose migliorie hanno continuato a perfezionare le sue prestazioni, e ancora oggi – in un’epoca dominata dalla musica digitale – il disco in vinile resta un oggetto amato e ricercato, simbolo di una tradizione sonora che continua a emozionare intere generazioni.

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