L’albero della vita, l’opera ideata e realizzata da Gustav Klimt come fregio a mosaico per la sala da pranzo della Casa Stoclet, a Bruxelles, tra il 1905 e il 1909, rappresenta, insieme alla casa stessa, progettata da Josef Hoffmann, con i suoi arredi disegnati da altri artisti-artigiani del laboratorio viennese (Wiener Werkstatte), un elemento di quell’opera d’arte totale (Gesamtkunstwerk), vagheggiata dagli artisti dell’Art Nouveau, soprattutto da quelli che fondarono, con Klimt, la Secessione austriaca, sul finire dell’Ottocento e fino alla tragedia della prima guerra mondiale.
L’albero di Klimt, allegoria dell’eterno ciclo di nascita, morte e rinascita della natura e della vita, affonda le sue radici – oltre che nella storia dell’arte in generale (si pensi solo alle varie raffigurazioni dell’ albero biblico della conoscenza del bene e del male) – nel movimento di rivalutazione del gotico sorto in Inghilterra nella prima metà dell’Ottocento. Quel movimento rappresentò le istanze estetiche, ma soprattutto etiche, sociali e religiose di quegli artisti, architetti e scrittori che reagirono alla meccanizzazione del lavoro, all’asservimento dell’uomo alla macchina anziché della macchina all’uomo, al prevalere della quantità dei manufatti industriali sulla loro qualità, allo sfruttamento delle risorse umane e naturali a danno della bellezza del paesaggio, dei ritmi naturali, della salubrità dell’aria e, quindi, dell’intera comunità. Tra gli architetti impegnati nel Gothic Revival , in particolare nella fase cosiddetta degli “Ecclesiologist”, spicca la complessa e tormentata personalità di August Pugin (1812 – 1852), autore, tra l’altro, di scenografie per il Covent Garden, dei disegni per gli arredi del castello di Windsor e per il palazzo del Parlamento; progettò diverse chiese e alcune abitazioni private, tra cui la propria casa nei pressi di Salisbury; ma più importanti della sua opera di architetto sono i suoi saggi apologetici dello stile gotico, considerato come la massima espressione della spiritualità dell’arte (Pugin si convertì al cattolicesimo nel 1834). Alcuni suoi principi saranno fatti propri da John Ruskin e da William Morris, entrambi persuasi della superiorità dell’etica sull’estetica e della funzione educativa e sociale dell’opera d’arte: ”In un edificio non ci devono essere elementi che non sono richiesti dalla convenienza, dalle esigenze costruttive o dal decoro. Tutti gli ornamenti devono essere un arricchimento della struttura essenziale dell’edificio. Il valore di un edificio dipende dal valore morale dell’artefice. Un edificio ha un valore morale indipendente e superiore a quello estetico”.
Anche John Ruskin (1819 – 1900) è un appassionato apologeta dello stile gotico e considera la società medievale come un modello ideale a cui la società contemporanea dovrebbe ritornare; nel Medioevo, infatti, la moralità e la religiosità erano valori più importanti di quello estetico; la sensibilità estetica può variare nel tempo e nello spazio, ma la moralità, secondo Ruskin, basandosi sull’essenza stessa dell’uomo, rimane inviolata nel mutare delle circostanze e delle mode. Nelle Sette lampade dell’architettura (1849), cioè i sette principi (sacrificio, verità, potenza, bellezza, vita, memoria, obbedienza) sui quali si basa – o si dovrebbe basare – l’architettura, leggiamo, nel capitolo dedicato alla “Lampada del Sacrificio”:
“Tutta l’architettura si propone di influire sullo spirito dell’uomo, non solo di offrire un servizio per il suo corpo. L’architettura è l’arte che acconcia e adorna gli edifici eretti dall’uomo per qualsiasi impiego, in modo tale che il vederli possa contribuire alla sua salute, al suo vigore e al suo piacere di ordine intellettuale”.Quali che siano le funzioni e le finalità pratiche degli edifici (devozionali, celebrative, civili, militari o domestiche) devono – o dovrebbero – comunque rispecchiare la virtù dell’artista interprete della profonda, arcana, divina bellezza della natura; per Ruskin l’opera d’arte ideale è il risultato coerente delle forme di una società organica e armonicamente organizzata. Di qui il vagheggiamento di un impossibile ritorno alle forme di vita della società preindustriale; nelle Pietre di Venezia (1853) il gotico è assunto quale esempio di religiosità e moralità di un’arte in cui la comunità si riconosceva immediatamente.
La decadenza comincia quando l’arte si distacca dalla vita comune, come, secondo Ruskin, avvenne nel Rinascimento; si può ben comprendere quindi la consonanza con la poetica dei Preraffaelliti e con l’opera di Dante Gabriele Rossetti (1828 – 1882), il poeta e pittore più significativo di quel movimento, figlio di un patriota mazziniano esule a Londra; anche i Preraffaelliti pensavano che la decadenza dell’arte cominciasse con il Rinascimento – in particolare con la “Grande Maniera” accademica rappresentata da Raffaello – e che fosse necessario risalire al tempo in cui gli artisti cercavano di imitare la natura a maggior gloria di Dio e non le opere d’arte della classicità a maggior gloria dell’arte (e dell’artefice). Ruskin ha anche scritti un testo didattico per aspiranti artisti (Elementi del Disegno e della Pittura, 1857) nella cui prefazione troviamo questa importante considerazione sul rapporto tra arte e industria: “…mi sembra che da noi si confonda troppo facilmente l’arte applkicata all’industria con l’industria stessa. Per esempio, l’abilità con cui un operaio fornito d’inventiva disegna e modella una bella tazza, è vera abilità artistica, mentre l’abilità con cui altri copia ed in seguito moltiplica per migliaia di volte quella tazza, è abilità di manifattura; le facoltà che dovranno rendere l’operaio capace a disegnare e ad elaborare il suo lavoro originale non si dovrebbero coltivare con lo stesso sistema d’istruzione che dovrebbe adottarsi per rendere capace un altro operaio a riprodurre il massimo numero di copie approssimative di quel lavoro, in un dato tempo. Di più: è principio dannoso quello di limitare l’educazione dell’artista agli esempi diretti dell’industria”.
Gli ideali e l’insegnamento di Ruskin sulla poesia e sulla natura del gotico esercitarono un’ influenza determinante sull’opera artistica e letteraria, nonché ideologica e politico-sociale di William Morris (1834 – 1896). Affascinato dalle cattedrali gotiche si dedicò allo studio dell’architettura, del disegno e della pittura; conobbe a Oxford i pittori Burn-Jones e Dante Gabriele Rossetti ed entrò nella Confraternita preraffaellita, dove si segnalò per il suo impegno sociale e per la sua volontà di restituire al lavoro manuale quella dignità e quel valore artistico che l’uso delle macchine nell’industria aveva vanificato. Tra il 1859 e il 1860, con l’aiuto dell’amico architetto Philip Webb, realizzò la propria abitazione in stile neogotico, la Red House, che può considerarsi come il manifesto della sua concezione dell’architettura e dell’arredamento. Persuaso dell’importanza delle cosiddette “arti minori” o applicate, nel 1861 fondò la “Morris, Marshall, Faulkner and Co”, una ditta che produceva stoffe da arredamento, tappezzerie, ceramiche, vetrate colorate, oggetti d’uso comune di raffinata fattura, come reazione al degrado del gusto estetico corrente dovuto alla produzione su scala industriale e alla conseguente diffusione di manufatti tutti uguali, anonimi e volgari. Tramite l’attività della ditta e poi con le esposizioni del movimento “Arts and Crafts”, Morris potè diffondere le sue idee e le sue innovazioni grafiche ( in cui compaiono quelli che saranno gli stilemi caratteristici dell’ Art Nouveau) e tipografiche (nel 1891fondò la casa editrice Kelsmott Press a Merton Abbey): come editore pubblicò, tra l’altro, le Opere complete di Geoffrey Chaucer, in una elegante edizione con caratteri goticizzanti e pagine incorniciate da decorazioni con motivi ad arabeschi floreali e impreziosite da incisioni. L’opera grafica di Morris e la sua teoria dell’arte integrata con l’ambiente naturale e sociale costituiscono un precedente immediato dell’Art Nouveau, le cui caratteristiche sono già evidenti nei manufatti disegnati e progettati dagli artisti del movimento Arts and Crafts: la linea sinuosa e continua, la ricorsività dei motivi decorativi nei quali domina la stilizzazione di foglie e fiori, la bidimensionalità delle figure, il calligrafismo …Queste caratteristiche le ritroviamo interpretate genialmente nell’opera grafica di un raffinatissimo artista, esteta e “decadente”, quale fu Aubrey Beardsley (Brighton 1872 – Mentone 1898), il quale, nella sua breve vita, riuscì a realizzare mirabili illustrazioni di testi letterari come La morte di Artù di Thomas Malory, Il ricciolo rapito di Alexander Pope, la Lisistrata di Aristofane e, soprattutto, la Salomè del suo amico Oscar Wilde. Con l’opera grafica di Beardsley siamo ormai nella temperie dell’Art Nouveau, come anche con quegli artisti belgi e olandesi che, rifiutati dall’esposizione ufficiale, costituirono nel 1884, un gruppo d’avanguardia chiamato “Les XX”. Questi venti artisti – tra cui emergevano Henry van de Velde, Fernand Khnopff, George Minne, James Ensor, Théo van Rysselberghe, Jan Toorop e Fèlicien Rops – guardavano al Simbolismo post-impressionista della scuola di Pont Aven, a Toulouse –Lautrec, a Gustave Morau e a Odilon Redon. I caratteri comuni ai pittori del gruppo belga-olandese (simbolismo, linearismo di Beardsley e delle stampe giapponesi, sintetismo di Gauguin, divisionismo di Seurat e Signac) sono ancora più evidenti nello svizzero Ferdinand Hodler e nel norvegese Edvard Munch.
Allo scadere del secolo, le speranze di Ruskin e Morris di un ritorno al Medioevo, almeno in campo artistico, si rivelarono per quello che erano: solo speranze; i raffinati manufatti artigianali da loro tanto strenuamente difesi rappresentavano un lusso che pochi potevano permettersi; soprattutto in architettura si avvertiva l’esigenza di sperimentare le possibilità offerte dai nuovi materiali come l’acciaio, il vetro, la ghisa e il ferro che già venivano usati nella costruzione delle stazioni ferroviarie, delle fabbriche, dei padiglioni delle grandi esposizioni internazionali.
Il 1893 può essere indicato come l’anno della nascita ufficiale dell’Art Nouveau; è infatti l’anno in cui l’architetto belga Victor Horta (1861 – 1947) realizza l’Hotel Tassel in rue P. E. Janson a Bruxelles, basandosi sulla lezione di Viollet le Duc che nel suo Dictionnaire raisonné de l’architecture française du XI au XVI siécle (1869), scrive: “Il giorno in cui tutti saranno convinti del fatto che il nuovo stile è soltanto la naturale e non studiata fragranza di un principio, di un’idea che consegue dal logico ordine delle cose di questo mindo; che lo stile si sviluppa come una pianta che cresce secondo una legge ben definita…ebbene quel giorno potremmo esser certi che i posteri ci riconosceranno un certo stile. Lo stile esiste perché il progetto architettonico è soltanto una immediata conseguenza dei fondamentali principi strutturali relativi a: 1- i materiali da utilizzare; 2- il modo di utilizzarli; 3- le operazioni da compiere; 4 – la logica derivazione dei dettagli e dell’insieme”.
In questo edificio confluiscono elementi stilistici e strutturali tipici dell’Art Nouveau in architettura:
La perfetta corrispondenza funzionale tra interno ed esterno, linee lunghe e ininterrotte che uniscono struttura e decorazione in un insieme armonioso evidente in paticolare nello spazio interno reso fluido dalla scala elicoidale e dal linearismo delle decorazioni sui pavimenti e sui soffitti, in cui Horta traspone liberamente anche motivi propri dell’arte giapponese. Ma la diffusione e la fortuna dell’Art Nouveau in Europa e negli Stati Uniti sono dovute a un altro artista belga, l’architetto, pittore, scrittore e designer Henry Van de Velde (1863 – 1957). Negli stessi anni in cui Horta progettava, costruiva e arredava l’Hotel Tassel, Van de Velde, dopo aver fatto parte, come abbiamo visto, del movimento “Les XX”, attratto in particolare dalla pittura di Gauguin e di Van Gogh, in seguito studia i testi di Ruskin e l’opera saggistica e grafica di Morris, queste letture lo persuadono a dedicarsi al design e alla manifattura di oggetti di arredamento e di arte applicata, ma, distaccandosi realisticamente dal verbo dei maestri cantori del neogotico, guardava alle macchine e alla tecnologia quali strumenti utili anche nel campo della ricerca e della sperimentazione di nuove forme d’arte applicata, come, per l’appunto, l’industrial design. Negli anni 1895-96, progettò e realizzò per sé la casa Bloemenwerf a Uccle, presso Bruxelles, intendendola come un’opera d’arte totale, tanto che non si limitò a progettarne gli elementi strutturali e gli arredi, ma disegnò anche la posateria e volle completare l’opera con la foggia fluente degli abiti della moglie; per lui (in questo fedele all’insegnamento di Morris) la bellezza delle abitazioni e degli oggetti d’uso quotidiano era il principale mezzo per l’affinamento del gusto e per la trasformazione della società, dato che “la bruttezza corrompe non solo gli occhi, ma anche il cuore e la mente”. Sempre a quegli anni risale la sua adesione alle teorie estetiche dello storico dell’arte austriaco Alois Riegl e al suo concetto di Kunstwollen, cioè la volontà di portare su un piano artistico anche il più semplice ed umile degli oggetti creati dall’uomo, superando così la tradizionale distinzione accademica tra arti maggiori e minori. Van de Velde condi- vise anche la teoria estetica dell’Einfuhlung o dell’immedesimazione con l’oggetto, di Theodor Vischer, termine che il suo allievo Theodor Lipps definì, nel 1897, come empatia (o simpatia simbolica):”noi sentiamo la nostra anima nelle forme senz’anima”. Con l’esposizione di Parigi del 1896 e di Dresda dell’anno successivo la fama di Van de Velde si diffuse in tutta Europa e le sue idee vennero riprese e discusse a livello internazionale; la nuova corrente artistica, chiamata in Belgio e in Francia “Art Nouveau” – la cui diffusione fu propiziata dalle grandi esposizioni mondiali in concomitanza con l’estendersi della ricchezza e del potere della borghesia industriale – assunse nomi diversi nei vari paesi (Modern Style in Inghilterra e negli Stati Uniti, Jugendstil in Germania, Sezessionstil in Austria, Modernismo in Spagna, Liberty o Stile floreale in Italia…) conservando però alcuni tratti comuni, ad esempio: il dominio della linea curva terminante con un ripiegamento a ricciolo (il cosiddetto “coup de fouet”); la stesura del colore à plat; la stilizzazione e la ricorsività dei motivi ornamentali; il riferimento al mondo vegetale; la ricerca di una nuova bellezza nei manufatti industriali; l’applicazione di questo stile in ogni campo dell’arte (dall’architettura alla pittura, dalla scultura alla grafica, dagli arredi domestici e urbani all’arte funeraria, dai gioielli alla pubblicità…); l’insistenza su figure femminili flessuose ed eleganti, come nell’opera grafica e pittorica di Alphonse Mucha. Tra i vari rami curvilinei dell’albero dell’Art Nouveau – che ormai la critica, seguendo il suggerimento di Rossana Bossaglia, è propensa a sostituire con il termine più comprensivo di “modernismo” – vanno senz’altro ricordati quello scozzese della scuola di Glasgow con il suo maggior esponente: Charles Rennie Mackintosh, designer geniale la cui fama si estese in Europa in seguito alla mostra della Secessione viennese del 1900 e a quella di Dresda del 1901, e poi all’Esposizione internazionale di Torino del 1902; quello francese della scuola di arti e mestieri di Nancy, fondata da Emile Gallé, creatore di vasi, lampade e oggetti in vetro colorato e decorato con arabeschi floreali e figure di zoologia fantastica. Una famosa creazione di Gallé è il lit-papillon, un letto che ha come decorazione una grande falena in madreperla; a Parigi erano attivi gli architetti Eugène Grasset e soprattutto Hector Guimard, che disegnò e realizzò le stazioni della metropolitana. Ma i paesi dove l’albero del Modernismo produsse i suoi frutti più originali e maturi, oltre al Belgio, furono l’Austria, la Spagna e l’Italia. In Austria nacque la Secessione viennese, fondata dal pittore Gustav Klimt, nel 1897, insieme ai giovani architetti Joseph Maria Olbrich e Josef Hoffmann, entrambi allievi di Otto Wagner, e ad altri artisti, tra i quali il pittore Koloman Moser, che si distinse anche come disegnatore di mobili, di vetrate e di caratteri tipografici. Questo gruppo di pittori e architetti, analogamente alle Secessioni di Monaco (1892), e di Berlino (1898), distaccandosi dall’Accademia di Belle Arti, formò un’associazione indipendente con una propria sede, il Palazzo della Secessione, e una propria rivista (Ver Sacrum). Il Palazzo della Secessione fu costruito da Joseph Maria Olbrich, tra il 1897 e il 1898, sulla traccia di un disegno di Gustav Klimt che lo immaginava come un tempio delle arti; sopra il portale d’ingresso tre rilievi di teste femminili simboleggiano la pittura, l’architettura e la scultura; sul frontone dell’edificio, sormontato da una cupola traforata, composta da migliaia di foglie di alloro (l’albero sacro ad Apollo) in rame ricoperto da lamine dorate, si legge l’iscrizione “Der Zeit ihre Kunst, der Kunst ihre Freiheit” (A ogni epoca la sua arte, all’arte la sua libertà); l’iscrizione, per la cronaca, fu rimossa dai nazisti nel 1938. L’artista di maggior talento del gruppo fu senza dubbio il pittore Gustav Klimt (1862- 1918), a cui dobbiamo opere fondamentali non solo per la Secessione viennese, come il Fregio di Beethoven, realizzato per la XIV mostra al Palazzo della Secessione del 1902, dedicata alla celebrazione di Beethoven; Le tre età della donna del 1905; Il bacio del 1907, e, come sopra abbiamo ricordato, il fregio di Casa Stoclet, a Bruxelles, opere in cui astrazione ed empatia, immagine e simbolo si fondono perfettamente in una mirabile sintesi tra elementi figurali e decorativi.
In quegli stessi anni si sviluppò in Catalogna il movimento dell’architettura modernista, in cui emerge la figura di Antoni Gaudì (1852 -. 1926). Il Modernismo catalano, riprendendo le idee di William Morris, intende ritornare alle forme medievali, considerate le più corrispondenti alla tradizione popolare spagnola; Gaudì, appassionato lettore delle opere di Viollet le Duc, aderisce al movimento modernista a progetta edifici in stle eclettico, neogotico e rinascimentale. In occasione dell’Esposizione Universale di Parigi del 1878 incontrò il conte Eusebi Guell, ricco imprenditore catalano, uomo di vasta cultura affascinato, tra l’altro, dalle idee di Ruskin e dalla musica di Wagner; grazie al mecenatismo di Guell, Gaudì potè lanciarsi in ardite sperimentazioni con materiali vari e nuove forme di decorazione: Casa Vicens (1878-89), Palazzo Guell (1885-1889), in cui compaiono per la prima volta gli archi a “catenaria” (una curva piana iperbolica, il cui andamento assomiglia a una catenella appesa ai due estremi e lasciata pendere liberamente, soggetta solo al proprio peso), Collegio di Santa Teresa del Gesù (1889-94) a Barcellona. Dopo queste opere, l’architetto catalano ha ormai elaborato un linguaggio del tutto personale che lo distingue nettamente dai colleghi modernisti operanti anch’essi a Barcellona, come, ad esempio, Domènech y Montaner e Puig y Cadafalch. Le opere più originali di Gaudì prendono forma a cominciare dai primi anni del Novecento: il Parco Guell, in cui natura, architettura, scultura e decorazioni si fondono organicamente; e all’architettura organica e fantastica del maestro catalano appartengono la Casa Batllò ((1905-07), la Casa Milà, detta la Pedrera (1905-10).
Alla Sagrada Familia, concepita, più che come un’opera totale, come un’opera aperta in continua costruzione, Gaudì si dedicò dal 1883 fino all’anno della sua morte, lasciandola incompiuta.
In Italia, l’Art Nouveau prende il nome di Liberty – dal nome dei magazzini londinesi di ArthurLasenby Liberty, attivi dal 1895 e specializzati nel commercio di suppellettili, stoffe e arredi prodotti dall’artigianato inglese di qualità, secondo l’insegnamento delle Arts and Crafts – si diffonde soprattutto in seguito all’Esposizione Internazionale di Arte Decorativa Moderna di Torino del 1902, i cui padiglioni furono disegnati dal friulano Raimondo D’Aronco (1857-1932), e alla quale diedero il loro prezioso contributo gli architetti torinesi Annibale Rigotti (1870-1968), Pietro Fenoglio (1865-1927), Gottardo Gussoni (1869-1951), che con le loro opere fecero di torino la capitale del Liberty italiano. Notevoli sono anche gli edifici in stile Liberty del palermitano Ernesto Basile (1857- 1932), dei milanesi Gaetano Moretti e Giuseppe Sommaruga; molto attivo a Roma, in Toscana e a Genova fu il fiorentino Gino Coppedè. Un ramo dell’albero di Gustav Klimt fiorisce anche in Italia: tra gli artisti “floreali” o Liberty italiani vanno ricordati illustratori, incisori e grafici come Adolfo De Carolis, amico di D’Annunzio, Giorgio Kiernek e Edoardo De Albertis che curarono, tra l’altro, la veste tipografica della rivista “La Riviera Ligure”, e, per certi aspetti, grandi pittori tra divisionismo e simbolismo come Giovanni Segantini, Gaetano Previati, Pellizza da Volpedo, Plinio Nomellini, il giovane Balla, il giovane Boccioni, il floreale Galileo Chini, il raffinato Vittorio Zecchin; tra i molti altri che andrebbero ricordati citerò soltanto il faentino Domenico Baccarini (1882 – 1907), che attraversò il cielo dell’arte italiana di fine e inizio secolo come una meteora, lasciando però opere che vivranno nei secoli futuri (naturalmente per chi saprà apprezzarne l’inestimabile valore).
Un testo di Fulvio Sguerso, socio di Italia Liberty