La situazione del Liberty nelle Marche

25 Giu

Il fenomeno del Liberty nelle Marche, considerato in termini cronologici (1902-1907), potrebbe inizialmente sembrare caratterizzato da una vivace e pronta adozione del nuovo stile. Si pensi, in particolare, al noto villino Ruggeri di Pesaro, la cui immagine è ormai diventata parte integrante del repertorio iconografico del periodo. Tuttavia, un esame più approfondito delle fonti documentarie relative all’Esposizione Regionale del 1905 rivela la persistenza di forti resistenze conservatrici. Nonostante ciò, la più accurata indagine sugli sviluppi architettonici locali suggerisce che una vera e propria diffusione del Liberty nelle Marche non si verificò prima del 1910. Inoltre, ciò che rimane dell’attività edilizia del primo Novecento conferma la natura tardiva del fenomeno Liberty nelle Marche, la quale, fatta eccezione per alcune sporadiche e isolate manifestazioni, non acquisì mai una forza autonoma o particolarmente incisiva nel panorama regionale.

Un esempio emblematico di tale dinamica è rappresentato dal villino Ruggeri. Un’analisi critico-stilistica rivela gravi incoerenze formali che si spiegano con la collaborazione, tutt’altro che armoniosa, tra l’architetto progettista Brega e l’industriale committente Ruggeri. Se da un lato la personalità del committente emerge come più aperta e inquieta, grazie anche alla sua conoscenza diretta di prototipi stranieri, dall’altro, quella dell’architetto resta legata a un gusto più tradizionale. Questo contrasto si manifesta in modo evidente nel confronto tra la forma del bovindo posteriore, quasi ispirato da un «carnet de voyage», e la pianta dell’edificio, che risulta decisamente convenzionale.

La situazione socio-economica delle Marche non favoriva l’adozione dei nuovi impulsi architettonici né l’introduzione di un linguaggio Liberty relativamente autonomo. A differenza di altre regioni italiane, dove una rapida industrializzazione contribuì a una rottura con il passato, nelle Marche il processo di industrializzazione si presentò più lento e sostanzialmente estraneo alla tradizione agricolo-artigianale del territorio. Semmai, con l’unificazione nazionale e l’apertura della linea ferroviaria adriatica verso il 1870, si verificò un’inversione delle forze attrattive urbanistiche e lavorative, concentrandosi maggiormente verso la costa, e alterando un equilibrio territoriale che, grazie alla pratica della mezzadria e alla continuità dei riferimenti culturali e amministrativi, aveva garantito la stabilità dell’organizzazione sociale sin dalle invasioni barbariche. Così, mentre nelle regioni settentrionali si assisteva a un decollo industriale, nelle Marche iniziava un attacco al patrimonio urbanistico e ambientale.

Due episodi significativi possono essere identificati come attuatori di questa trasformazione distruttiva. Il primo riguarda il cambiamento dell’assetto urbano di Ancona. Già verso la fine dell’Ottocento, l’importanza crescente del porto e l’ampliamento delle sue funzioni amministrative e commerciali portarono a una serie di interventi urbanistici che modificarono radicalmente il paesaggio cittadino. Le demolizioni inconsulte, protratte fino agli anni Quaranta, spezzarono l’armonia preesistente della città, creandone una nuova configurazione urbana, improntata a uno sviluppo lineare da nord-ovest a sud-est, culminante nel monumento ai Caduti del Passetto. Questi cambiamenti si concretizzarono in edifici burocratici e residenze borghesi di grandezza imponente, nonché in quartieri destinati principalmente al proletariato, attorno alla stazione ferroviaria.

Il secondo episodio si verifica lungo la costa, con l’alterazione di un secolare equilibrio morfologico e urbano a Grottammare. Il piccolo centro, originariamente situato in una posizione privilegiata sopra un colle che sovrastava il porticciolo, subì un’inversione della sua configurazione a causa dell’erosione della battigia e dell’inopportuno tracciamento della ferrovia lungo la costa. Questo processo portò alla perdita della caratteristica funzionalità ecologica del centro abitato e alla progressiva espansione edilizia, che ne stravolse l’assetto originale, trasformando Grottammare in una cittadina costiera, sempre più connessa a San Benedetto del Tronto.

Nonostante questi fattori sfavorevoli, il movimento Liberty nelle Marche merita comunque una valutazione attenta, non solo per documentare le sue manifestazioni, ma anche per integrare la conoscenza di una regione che, pur essendo artisticamente ricca, è stata a lungo sottovalutata e male valorizzata. Inoltre, era necessario preservare e valorizzare le testimonianze di un periodo storico che, pur segnato da contraddizioni, è stato fonte di espressioni artistiche e architettoniche significative.

L’Istituto di Storia dell’Arte dell’Università di Macerata ha intrapreso una rilevante iniziativa di ricerca, e Giulio Angelucci, uno degli allievi, ha svolto un lavoro pionieristico nel catalogare e analizzare oltre sessanta «pezzi» dell’epoca, tra cui edifici, mobili, oggetti d’arredamento e persino capi di abbigliamento. Tra le opere più rilevanti emerge la villa Conti, situata a Civitanova Marche, che rappresenta una sintesi perfetta del gusto Liberty, coniugando elementi architettonici, decorativi e di arredamento in un contesto che riflette il clima culturale decadente e dannunziano del periodo. La qualità di questo complesso, che include anche un parco circostante, è tale da meritare una tutela integrale, al fine di preservare l’armonia del progetto originale.

Accanto a queste realizzazioni di maggiore rilevanza, si segnalano altre opere minori che, pur nella loro modestia, offrono un’interpretazione interessante del Liberty nelle Marche. Tra queste, la stazione tramviaria di Civitanova e l’Auto Palace Perogio di Macerata rappresentano esempi significativi di applicazione dell’architettura industriale in chiave Liberty. Sebbene talvolta la ripetizione degli schemi formali ne comprometta l’armonia, la stazione di Palombina e alcuni edifici minori, come la farmacia Natalini a Civitanova, dimostrano la capacità del Liberty marchigiano di farsi portavoce di un’estetica raffinata, pur nel contesto di una società che restava ancorata a tradizioni conservatrici.

Infine, va segnalato il caso di villa Matricardi, a Grottammare, che, pur con la sua decorazione floreale tipica del Liberty, presenta già alcune influenze proto-razionaliste, come si evince dalla continuità tra i pilastri e le arcate del torrioncino. Questo aspetto evidenzia la transizione del movimento Liberty verso nuove tendenze, che saranno poi esplicitamente sviluppate nel corso degli anni Venti del Novecento.

In conclusione, il Liberty marchigiano, sebbene tardivo e limitato in alcuni aspetti, possiede una sua autenticità e una qualità che merita di essere riconosciuta e valorizzata, prima che il tempo e la speculazione edilizia ne cancellino le tracce.

Il complesso di Villa Conti, situato nella contrada S. Michele a Civitanova, rappresenta un esempio significativo dell’architettura Liberty nelle Marche. Il progetto, datato 1910 come documentato dal fregio ceramico sopra al portone d’ingresso, è stato realizzato da un architetto anonimo che si avvalse della collaborazione di Maccaferri per la realizzazione del ferro battuto e di Pinzauti per il fregio ceramico in facciata. La villa è un edificio a due piani, con una mansarda e tre piani seminterrati ricavati sfruttando il dislivello della collina. La pianta dell’edificio risulta particolarmente articolata, con numerosi bovindi decorati con motivi botanici in cemento e arricchiti da elementi in ferro battuto, che ne caratterizzano fortemente l’aspetto estetico. Il cemento è utilizzato anche per i piani di facciata e, soprattutto, nel torrioncino e nella loggetta adiacenti all’ingresso. La porta principale, caratterizzata da una forma a cuore rovesciato, è realizzata con telaio in legno e inserto in vetro e ferro battuto, in linea con i canoni decorativi tipici del Liberty. Gli arredi interni, seppur conservati in buono stato, mostrano una netta divisione stilistica: nella stanza da pranzo e nello studiolo, il legno chiaro segue uno stile “Yachting”, mentre nel salottino il legno scuro predomina. Tra gli arredi si segnala una coppia di poltrone a schienale inclinabile in stile Mackintosh e alcuni cristalli, che conferiscono un ulteriore tocco di eleganza all’ambiente. Lo stato di conservazione della villa è ottimo all’esterno e soddisfacente all’interno, salvo per alcune infiltrazioni d’umidità che non intaccano la qualità complessiva del sito. Il complesso, pur nel suo carattere modesto e coerente con lo stile Secessione, rappresenta un esempio fondamentale del Liberty marchigiano, inserito in un contesto che abbraccia il modernismo e include elementi che vanno dal neogotico agli esiti dannunziani. Per la sua qualità estetica e il valore storico, il complesso di Villa Conti merita di essere tutelato con vincoli di conservazione. La villa è stata anche citata nel catalogo della mostra del Liberty di Milano. Alcune osservazioni recenti suggeriscono che l’autore della villa possa essere il bolognese Paolo Sironi, in relazione a una serie di affinità con altre opere contemporanee, tra cui Villa Ferrario, Villa Leone e Villa “La Palancola”.

La stazione terminale della tramvia elettrica di Civitanova Porto, progettata dall’ingegnere M. Giamboni, rappresenta un raro esempio di opera pubblica in stile Liberty. Nonostante il progetto non possa essere anteriore al 1908, l’inaugurazione del servizio tramviario avvenne nel 1912. L’edificio della stazione è realizzato in mattoni a vista di colore rosso-scuro, con alcuni elementi in intonaco bianco, e presenta decorazioni in ceramica e ferro battuto, coerenti con lo stile Secessione che ispira il complesso. La struttura è composta da un corpo centrale rialzato e sporgente, affiancato da due elementi laterali a un piano, ciascuno dotato di un finestrone a tre luci, motivo che si ripete anche nel prospetto laterale. Un piccolo edificio, con la scritta “Officina Meccanica”, è collegato alla stazione tramite una leggera balaustra in ferro e salda l’edificio principale a una schiera di costruzioni neutre che separano lo spiazzo di manovra dal piazzale di rappresentanza. Entrambi gli spazi sono esterni alla cinta muraria e risultano dalla resezione del campo boario, divenuto evidentemente sproporzionato alla funzione assolta. La progettazione di questo complesso architettonico integra perfettamente l’elemento naturale del giardino pubblico, conferendo all’edificio un significato urbano più ampio, tanto da rappresentare quasi l’atrio della città.

L’introduzione del collegamento tramviario tra Civitanova Porto e la città alta segnò il primo intervento consapevole sulla relazione tra i due centri. Questo progetto si inseriva nel dibattito sull’opportunità di frenare il depauperamento demografico del centro collinare, garantendo al contempo lo sviluppo industriale del centro costiero. Intorno al 1910, il centro costiero di Civitanova subì un mutamento della sua connotazione urbanistica, con la nascita di nuovi quartieri che si integravano alle preesistenze in un nuovo organismo urbanistico. In particolare, il Corso Umberto I, lungo il quale si affacciano molti degli edifici schedati, tangente al tipico reticolo determinato dalle esigenze funzionali del pescatore, mostrò una chiara trasformazione. La prevalenza delle attività industriali favorì lo sviluppo di nuovi quartieri costituiti da case unifamiliari a schiera, organizzate su due piani e con facciate di dimensioni ridotte. Queste abitazioni erano progettate senza l’intervento di un progettista vero e proprio e affidate al mastro-muratore, con una supervisione subordinata del destinatario. Il tipo edilizio prevedeva l’orientamento delle facciate lungo il segmento di schiera disponibile, con il collegamento delle due fronti e la collocazione mediana della scala, al fine di riservare spazio per le aperture luminose. Le decorazioni architettoniche, limitate a elementi come balaustre, mensole del balcone, architravi e, più raramente, cornicioni, erano realizzate con materiali di modesto pregio, ma rispondevano comunque alla diffusione dello stile Liberty. In particolare, si nota l’influenza dello stile tra i fabbri locali, che hanno contribuito alla realizzazione delle balconate superstiti, dimostrando l’estensione del fenomeno anche alle lavorazioni metalliche.

L’Esposizione Regionale delle Belle Arti, che si tenne a Macerata nel 1905, rappresenta un importante momento di riflessione sulla situazione artistica delle Marche in quel periodo. La commissione delle Belle Arti, pur avendo accolto le offerte senza un criterio severo di selezione, esprimeva il proprio disappunto riguardo a un approccio che non seppe discriminare adeguatamente, finendo per compromettere le ambizioni trionfalistiche degli organizzatori. Tuttavia, questa mancanza di selettività si rivelò essenziale per rappresentare in maniera ampiamente rappresentativa la situazione artistica regionale, facendo della Mostra una vera e propria testimonianza delle tendenze locali. In particolare, la Mostra si presenta come un campione del Liberty marchigiano, in quanto le esposizioni, tipiche di movimenti come l’Art Nouveau, sono una delle manifestazioni più evidenti di un’epoca che cercava di rispondere a nuove necessità estetiche. Se, da un lato, le testimonianze bibliografiche relative alla Mostra risultano essere tra le più significative per questo periodo della storia artistica marchigiana, dall’altro lato, le operazioni architettoniche e urbanistiche che la Mostra ha ispirato rappresentano un indizio attendibile dell’accoglienza riservata al nuovo stile, sebbene non sia ancora iniziata una vera penetrazione del Liberty nella regione.

Nel 1905, la città di Macerata, ancora racchiusa nelle sue mura medievali, non mostrava segni evidenti di un cambiamento radicale, se non in un timido cenno di ampliamento, visibile nel rilievo della città datato 1898. L’Esposizione, tuttavia, ebbe il merito di ispirare il primo atto pubblico volto a riqualificare l’area esterna alle mura, trasformando un precedente spazio agricolo in un’area destinata all’esposizione, per poi divenire un giardino pubblico. Questa decisione, che prevedeva il trasferimento del mercato agricolo in un’altra zona della città, segnalava una diminuzione del valore attribuito al ruolo agricolo di Macerata e un crescente interesse per l’elemento decorativo e urbanistico. La scelta di ubicare la Mostra fuori dalle mura medievali, ma ancora adiacente ad esse, rispecchiava il desiderio di integrare la nuova esposizione con la visione urbana della città, mettendo in risalto la vista panoramica della città murata come un oggetto scolpito.

L’ingresso alla Mostra, situato sul lato Sud di piazza Garibaldi, dava accesso a un viale su cui si allineavano i padiglioni della sezione economica, che culminavano nella sezione artistica all’interno del Convitto Nazionale. Il design dei padiglioni, realizzati in legno, fu affidato all’ingegnere Ugo Cantalamessa, il quale, nonostante le limitate risorse economiche, riuscì a evitare eccessi decorativi, mantenendo un tono di compostezza e funzionalità. In particolare, i padiglioni dell’industria e dell’agricoltura riservano alla funzione decorativa solo motivi timidi, che si inseriscono con discrezione senza forzare le forme schematizzate. Le componenti di rappresentanza, pur nella loro semplicità, riflettono la stessa attitudine di sobria eleganza, come nel caso del padiglione delle feste, il quale, pur richiamando una reminiscenza brunelleschiana in chiave rinascimentale, non scivola mai nella vanità ostentativa.

Per quanto riguarda la sezione artistica, i risultati della Mostra non fecero emergere alcuna tendenza significativa verso il Liberty. Al contrario, si registrò una forte presenza di artisti che, pur vantando il titolo di “artista”, si distinguevano per la loro formazione poco avanzata, se non del tutto anacronistica. L’intervento di critici e giurati evidenziò una prevalenza di produzioni storicistiche, come nel caso delle opere di Biagio Biagetti, apprezzato per le sue tempera che raccontano la storia del pane, e di Giuseppe De Angelis, che pur ricevendo elogi per il suo realismo, venne comunque visto come appartenente a una tradizione di matrice socialista. Gli scultori, come Gaetano Orsolini, pur dimostrando un buon livello tecnico, non sfuggirono a una concezione prevalentemente storicistica della forma. La critica alle tendenze esterofile fu una costante, come evidenziato dalle riserve espresse nei confronti degli artisti che si avvicinavano a stili nordici o moderni, spesso considerati troppo distanti dalle tradizioni locali.

L’architettura, pur scarsamente rappresentata, si confermò ancorata a modelli storicisti. Un esempio significativo è il progetto di un “Cimitero per Mantova”, che pur essendo designato come un’opera in stile Liberty, rispecchiava in realtà una matrice storicistica più tradizionale. Le scuole di arte applicata, come la Scuola d’Arte di Macerata, continuavano a seguire rigidi canoni accademici, con una didattica che poco si adattava ai principi modernisti, relegando l’artigianato a una dimensione subordinata alla decorazione storicistica. Tuttavia, tra gli artigiani, specialmente quelli che operavano nel ferro e nel legno, si iniziava a percepire una certa apertura verso la modernità, benché ancora ambigua e incerta.

In conclusione, la Mostra del 1905 a Macerata, pur non essendo un fulcro di innovazione stilistica, segnò un momento di transizione importante nella storia artistica e urbanistica delle Marche. Essa rifletteva una fase di passaggio tra una tradizione storicista radicata e la nascita di una più consapevole attenzione verso le nuove tendenze del Modernismo, che avrebbero preso piede con maggiore decisione nei decenni successivi. La Mostra documentò un’incerta ma significativa apertura al nuovo, purtroppo frenata da resistenze locali e dalla persistenza di una cultura estetica conservatrice.

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