L’analisi del rapporto tra l’Abruzzo e il Liberty impone, in via preliminare, un chiarimento metodologico: il numero limitato di schede presenti nei cataloghi regionali, circa una ventina, non può e non deve essere inteso quale indice di una presenza effettiva e diffusa dello stile modernista nel territorio. Tali schede non costituiscono un corpus esaustivo né una selezione rappresentativa per valore artistico assoluto, ma piuttosto raccolgono episodi puntuali, utili a delineare un contesto in cui il Liberty non si manifestò mai in forma compiuta o sistemica¹.
In Abruzzo, infatti, si assiste non solo all’assenza di una rielaborazione originale dello stile, ma anche alla mancata adesione a esso sotto forma di linguaggio decorativo condiviso. Si tratta di una condizione che, pur riscontrabile anche in aree meno marginali del panorama nazionale², nel contesto abruzzese assume una valenza specifica e più radicale: quella di un rigetto ideologico e culturale, piuttosto che di una semplice non ricezione. I fattori strutturali che avrebbero potuto favorire una circolazione consapevole delle poetiche liberty – informazione, formazione, committenza colta, capacità tecnica – risultano in larga misura assenti o comunque disinnescati da resistenze più profonde.
Le ragioni di tale chiusura vanno cercate nel lungo periodo postunitario, durante il quale l’Abruzzo sviluppò un rapporto complesso e spesso conflittuale con le dinamiche del nuovo Stato nazionale. A un sentimento diffuso di estraneità culturale si sommarono fenomeni di stagnazione economica, recrudescenze reazionarie e il tracollo del sistema pastorale³, elementi che contribuirono alla cristallizzazione di modelli culturali e artistici legati alla tradizione, primo fra tutti il barocco, ancora vitale e perfettamente capace di assorbire eventuali innesti formali⁴. In tale clima, ogni spinta innovativa venne neutralizzata o ricondotta all’interno di paradigmi preesistenti.
Un esempio emblematico è offerto dall’artigianato del ferro battuto, che negli anni del Liberty visse una stagione di rinascita, ma senza mai assimilare le matrici morfologiche dello stile. Le linee si mantengono simmetriche, regolari, statiche, e la componente decorativa si radica in un repertorio vernacolare, lontano dalla tensione dinamica e dalla fluidità formale del modernismo floreale. Analoghe considerazioni valgono per le arti applicate, in cui la figurazione – si pensi al tema del fiore – conserva un impianto plastico, terreno, privo di idealizzazione o astrazione⁵.
Ancora più indicativo è il caso dell’architettura, il campo nel quale il Liberty trovò in Italia le sue espressioni più mature e complesse⁶. In Abruzzo, invece, si registra un sostanziale vuoto. Le poche eccezioni, come l’edificio Bonolis a Teramo o la figura dell’architetto Vincenzo Gambini, non sono sufficienti a delineare un orizzonte stilistico locale. Il primo, realizzato tra il 1912 e il 1913, presenta una struttura ibrida – tra residenza e opificio – e rivela interferenze progettuali esterne, verosimilmente romane. Il secondo, pur se formatosi in ambienti modernisti, mantenne con la regione natale legami sporadici e superficiali⁷.
In questo panorama, la città di Teramo si distingue per una maggiore ricettività. Il palazzo Castelli rappresenta il vertice di una possibile declinazione autoctona del Liberty, in cui si fondono, pur in modo sincretico, istanze figurative realistiche e citazioni moderniste. Gli affreschi della facciata, con le raffigurazioni di Flora e Pomona, testimoniano un naturalismo vibrante, accentuato da un cromatismo acceso che restituisce vitalità alla superficie decorativa⁸. Altrettanto significativo, sebbene non direttamente ascrivibile al Liberty, è il complesso del “Castello”, riconducibile all’area anticonformista gravitante attorno alla casa Delfico, attiva già nella seconda metà dell’Ottocento⁹.
Decisamente più tenue risulta, invece, l’apporto di Pescara, la cui apertura al Modernismo si manifesta in forma ritardata e priva del substrato culturale necessario a sostenere una riflessione stilistica autonoma. Tuttavia, la prossimità simbolica con la figura di Gabriele D’Annunzio – la cui casa natale si affaccia sul viale che ne porta il nome, dove sorgono i principali edifici in catalogo – conferisce a questi episodi un’aura evocativa. La sua influenza sul Liberty italiano, ambigua e spesso indiretta, si riverbera anche qui, generando un effetto di rifrazione culturale più che un’autentica adesione¹⁰.
Alla luce di tali considerazioni, l’Abruzzo si configura non tanto come una regione marginalmente coinvolta nel fenomeno Liberty, quanto piuttosto come un territorio in cui lo stile moderno venne consapevolmente escluso o neutralizzato. L’assenza di Liberty in Abruzzo non è dunque semplice lacuna, ma segnale eloquente di una resistenza culturale, di una identità locale che si definisce anche attraverso ciò che rifiuta di assimilare.
- Cfr. Liberty in Abruzzo, catalogo della mostra, a cura di M. Calvesi, L’Aquila, 1985.
- Si vedano i casi della Basilicata o della Calabria, dove la ricezione del Liberty fu parziale e spesso mediata da committenti emigrati.
- Sulle dinamiche economiche postunitarie, cfr. G. Galasso, L’Italia nella crisi mondiale. 1870-1914, Milano, 1993.
- Sul ruolo persistente del barocco nella cultura visiva abruzzese si veda C. Cianfarani, Architettura e tradizione in Abruzzo, Pescara, 1972.
- Per un’analisi formale dell’artigianato abruzzese tardo-ottocentesco, cfr. A. Pace, Decorazione popolare e arti applicate in Abruzzo, Chieti, 1981.
- Sulla dimensione nazionale del Liberty architettonico: F. Borsi, Il Liberty in Italia, Milano, 1967.
- Per un inquadramento critico su Gambini: M. Di Macco, “Vincenzo Gambini tra Roma e l’Abruzzo”, in Architettura italiana del primo Novecento, Firenze, 2004.
- Gli affreschi sono documentati in: A. M. Damiani, Il palazzo Castelli a Teramo: decorazione e significato, Teramo, 1991.
- Su Casa Delfico e il suo ambiente: V. Castronovo, Intellettuali e società nell’Italia dell’Ottocento, Torino, 1980.
Per una riflessione sul rapporto tra D’Annunzio e il Liberty: G. Palmieri, Il segno e il corpo: D’Annunzio e l’arte del suo tempo, Venezia, 2003.