LO STILE LIBERTY IN CAMPANIA. Napoli regina del floreale

25 Giu

All’inizio del XX secolo, Napoli, già capitale del Regno delle Due Sicilie, aveva ormai abbandonato le sue ambizioni di città guida del Mezzogiorno in una prospettiva europea. Le gravi disfunzioni derivanti dal processo di unificazione nazionale – mal congegnato e mal gestito – avevano prodotto profonde ferite: dall’interruzione dello sviluppo industriale a una persistente crisi delle strutture socio-economiche locali. Sebbene sia stato già ampiamente discusso il complesso di tali fattori[1], va tuttavia rilevato come, nel periodo in esame, sopravvivesse in certi ambiti della società partenopea un residuo fermento culturale, visibile in particolare nei settori dell’urbanistica e dell’architettura.

Un esempio emblematico di questa vitalità fu la diffusione dello stile floreale – o Liberty – in ambito edilizio, che si intrecciò con l’attuazione del grande Piano di Risanamento e Ampliamento varato nel 1885 e proseguito ben oltre i primi trent’anni del Novecento[2]. In questo scenario, le realizzazioni liberty si svilupparono nel contesto caotico di una città-cantiere: tra demolizioni, cantieri sospesi, speculazioni edilizie, scandali amministrativi e gravi crisi economiche. Nonostante l’instabilità generale, il Piano rappresenta ancora oggi l’unico intervento urbanistico di vasta scala effettivamente realizzato nella città, e in quanto tale conserva un valore positivo se confrontato con l’urbanistica frammentaria delle epoche successive[3].

La produzione architettonica liberty si configurò quindi come reazione, completamento o riflesso degli interventi ufficiali, ma anche come risposta autonoma a una trasformazione urbana non sempre coerente. In termini cronologico-stilistici, le costruzioni umbertine previste dal Piano – pur completate con ritardo – apparivano già antiquate al confronto con le nuove architetture floreali, più moderne e culturalmente aggiornate. Tale divario stilistico contribuì a ritardare la piena affermazione del liberty a Napoli, che si prolungò eccezionalmente fino agli anni Venti[4].

Un secondo elemento distintivo fu il rapporto tra i due poli del Piano – Risanamento e Ampliamento – e la diversa destinazione sociale degli spazi. Mentre l’intervento nel centro storico si concentrava sul “diradamento” dei quartieri popolari – come Porto, Pendino, Mercato e Vicaria – le aree periferiche, originariamente previste per l’edilizia popolare, furono a lungo trascurate. Le zone occidentali, più salubri e scenografiche, divennero residenze della borghesia, mentre le aree orientali, nei pressi della stazione, assunsero un carattere promiscuo e marginale[5].

In tale contesto, l’edilizia liberty trovò espressione privilegiata nelle zone occidentali della città, come il Vomero e il quartiere di Chiaja. Il caso del Vomero è emblematico: un progetto inizialmente ambizioso della Banca Tiberina – che mirava a creare una “città satellite” con moderne infrastrutture e funicolari – fallì per motivi economici e fu portato avanti da piccoli imprenditori locali. Essi diedero vita a un tessuto edilizio diffuso, costituito da palazzine in stile floreale, molte delle quali oggi scomparse[6].

Diversa fu la vicenda del quartiere di Chiaja, anch’esso servito da funicolare e contraddistinto da un’edilizia borghese di alta qualità. La zona del Parco Margherita, le vie Filangieri e dei Mille, piazza Amedeo e via Crispi divennero il fulcro della residenza signorile partenopea. Fin dal 1886, una relazione al Consiglio Comunale sottolineava l’importanza di conciliare il risanamento igienico con l’abbellimento estetico e l’accoglienza delle classi agiate e dei forestieri[7].

L’edilizia liberty in queste aree si articolava in tre tipologie: edifici urbani alti con funzione mista (residenziale e commerciale), palazzine a più livelli adattate alla morfologia collinare, e ville unifamiliari, in particolare a Posillipo. Tra le realizzazioni più riuscite, si annoverano gli edifici progettati da G.U. Arata per la ditta Ricciardi-Borelli-Mannajuolo, tra cui spicca il celebre palazzo Mannajuolo con la sua scala elicoidale e l’elegante soluzione d’angolo[8].

La genealogia dello stile liberty a Napoli va cercata nei contatti culturali con il Nord Italia – in particolare Sommaruga e la Scuola lombarda – e con la Sicilia, tramite Basile e la ditta Ducrot. Il gusto figurativo europeo era veicolato anche da riviste specializzate, soprattutto torinesi, che contribuirono alla rapida diffusione dello stile su scala nazionale[9].

Pur con alcuni episodi notevoli – come le Terme di Agnano, la villa Pappone a Posillipo e la già citata architettura di Arata – il liberty napoletano non raggiunse mai i livelli dell’Art Nouveau internazionale. Laddove applicato in contesti meno consoni – periferie, aree commerciali, lotti irregolari – lo stile floreale si rivelò un tentativo esteticamente patetico di “mascherare” i limiti strutturali e culturali del contesto urbano postunitario[10].

Tuttavia, un giudizio complessivamente positivo può essere espresso per la vitalità autonoma dell’edilizia liberty, frutto dell’iniziativa privata borghese piuttosto che di grandi apparati istituzionali. In alcuni casi, lo stile liberty fu addirittura superato dall’interno, come dimostra l’esempio della villa De Cristoforo al Vomero, opera di Michele Platania, che sembra ispirarsi alle tendenze geometriche e astratte dell’Art Nouveau mitteleuropea, in particolare a Mackintosh e Hoffmann, più che alle linee curve dell’Einfühlung[11].

Infine, l’apice della cultura liberty a Napoli non fu tanto nell’architettura, quanto nell’elaborazione urbanistica. In particolare, il primo Piano Regolatore Generale redatto da Francesco De Simone rappresentò un documento di grande valore tecnico e culturale, in sintonia con le esperienze europee coeve e anticipatore di una moderna visione pianificatoria[12].

[1] Cfr. Villari, Rosario. Il Sud nella storia d’Italia, Laterza, 1971.
[2] Sull’origine e sviluppo del Piano di Risanamento, vedi: Capasso, Francesco. Napoli postunitaria. Urbanistica e risanamento, ESI, 1994.
[3] Cfr. Benevolo, Leonardo. Storia della città, Laterza, 1975, vol. 3.
[4] De Seta, Cesare. Il liberty a Napoli, Electa Napoli, 1986, pp. 23-30.
[5] Vedi: D’Alessandro, Marina. “Espansione urbana e politiche edilizie a Napoli tra Ottocento e Novecento”, in Storia Urbana, n. 42, 1988.
[6] Archivio Storico Comunale di Napoli, Fondo Piano di Risanamento, cart. 112.
[7] Relazione al Consiglio Comunale di Napoli, seduta del 5 marzo 1886.
[8] Cfr. Ferlenga, Alberto. Arata e il liberty napoletano, Skira, 2002.
[9] Si veda la rivista L’Architettura Italiana Moderna, Torino, 1902–1910.
[10] De Fusco, Renato. Storia dell’architettura contemporanea, Laterza, 2004, p. 157.
[11] Cfr. Worringer, Wilhelm. Astrazione e empatia, SE, 1990.
[12] Cfr. De Simone, Francesco. Piano regolatore di Napoli, manoscritto del 1914, Archivio Centrale dello Stato.

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