ROMAGNA LIBERTY. Sviluppo della cultura modernista in Emilia Romagna

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25 Giu

L’affermarsi dello stile Liberty in Emilia-Romagna non fu un processo uniforme, bensì un’esperienza frammentata e difforme, espressione di una regione articolata in una miriade di realtà territoriali, sociali ed economiche, profondamente segnate da una storia di autonomie municipali e da un retaggio rurale ancora egemone in larga parte del territorio. In particolare, l’area bolognese, complice la presenza di figure carismatiche come Alfonso Rubbiani e la fioritura dell’Aemilia Ars, rappresentò una delle esperienze più coerenti e consapevoli del floreale italiano, grazie a un’intelligente trasposizione del pensiero morrissiano in chiave locale, culminata nel restauro di San Francesco e nella rivalutazione delle arti applicate (Bossaglia, 1975). Tuttavia, il fervore bolognese si scontrava con la timidezza del comparto architettonico, incapace di emanciparsi dal neogotico e di elaborare un linguaggio moderno compiuto, fatta eccezione per l’isolato caso di Paolo Sironi, architetto milanese influenzato dalla Secessione viennese e dalla scuola di Horta, le cui ville di via Audinot costituiscono uno degli episodi più maturi del Liberty regionale, sebbene prive di una reale ricaduta sul contesto urbano felsineo (Zanfini, 2008).

Spostandosi lungo l’asse della via Emilia verso la Romagna, si osserva una rarefazione delle esperienze Liberty, spesso giunte in ritardo e contaminate da suggestioni novecentiste o da un eclettismo conservatore, come nel caso dell’asilo progettato da Regimo Mirri a Imola, dove il gusto è più narrativo e deamicisiano che modernista. La Romagna, a differenza dell’Emilia settentrionale dove l’industria e la media borghesia avevano creato un mercato per materiali edilizi in stile floreale, rimane ancorata a una cultura agraria che favoriva l’autosufficienza espressiva e il recupero della tradizione. Riccione costituisce un’eccezione, essendo stata definita “capitale del Liberty” per via della concentrazione di villini lungo la riviera, spinta anche dalla lottizzazione del demanio marittimo che, tra il 1890 e il 1915, trasformò litorali come quelli del riminese in zone di villeggiatura borghese (Vandelli, 2002).

In questo contesto, architetti come Mirko Vucetich o Cesare Tamburini realizzarono edifici che coniugavano la lezione viennese con suggestioni barocche o gaudiane, come nella villa Antolini a Riccione, dove anche il giardino venne pensato in chiave decorativa secondo canoni Liberty, con l’uso di glicini, edera e arredi in ferro battuto (Magnani, 2011). Tuttavia, la fortuna del Liberty in Romagna fu spesso effimera e osteggiata: a Rimini, le decorazioni floreali venivano sistematicamente cancellate dai progetti approvati dalla commissione edilizia, e solo pochi esempi sopravvivono, come il Grand Hotel progettato da Paolito Somazzi nel 1908, icona del turismo balneare e monumento nazionale dal 1994, influenzato dal Jugendstil tedesco e dalla tradizione francese della Belle Époque (Catrani, 2006).

Al di là dell’architettura, la grafica rappresentò una delle più fertili espressioni del Liberty romagnolo. La rivista “Italia che ride”, fondata a Bologna, e le opere di illustratori come Marcello Dudovich o Antonello Moroni, attestarono l’esistenza di una sensibilità visiva capace di recepire le novità europee e declinarle in un contesto locale, anche se con toni più misurati e realistici rispetto all’Art Nouveau francese o belga (Tramonti, 1999). Allo stesso modo, la ceramica faentina, grazie a figure come Achille Calzi e le manifatture dei fratelli Minardi, offrì un’applicazione coerente del floreale alle arti decorative, così come l’ebanisteria Casalini e la bottega Matteucci a Forlì realizzarono ferri battuti e arredi di pregevole fattura.

Il Liberty romagnolo, dunque, fu soprattutto un fenomeno decorativo e marginale rispetto alla grande stagione europea del modernismo, e trovò esiti più convincenti nella progettazione degli interni, nelle arti applicate e nei manifesti, piuttosto che nell’urbanistica e nell’architettura urbana, dove le resistenze culturali ed economiche, unite alla lentezza dei processi di industrializzazione, ne impedirono la piena fioritura. Resta però la testimonianza di un momento in cui la provincia si affacciò timidamente alla modernità, lasciando, seppur in modo discontinuo e sommesso, tracce visibili e significative.

Il periodo immediatamente precedente all’affermarsi dello stile Liberty in Emilia Romagna, e in particolare a Bologna, si distingue per un vivace fermento culturale che conferiva alla città un ruolo significativo nel contesto di una cultura italiana ancora per molti versi conservatrice. Questo dinamismo era in gran parte il risultato dell’intelligente attività di Alfonso Rubbiani, il quale riuscì a tradurre ed adattare le idee di William Morris in un linguaggio idoneo alla realtà locale. L’opera di Rubbiani segna un momento di riscoperta storica, con importanti restauri di edifici medievali e gotici, come quello di San Francesco, accanto alla reinterpretazione stilistica di tali edifici, ora arricchiti da aggiunte “in stile”. Tuttavia, il periodo fu anche caratterizzato da un forte rinnovamento delle attività artigianali, che non si limitavano alle applicazioni architettoniche ma comprendevano anche mobili, vetrate, ceramiche, ferri battuti, rilegature, manifesti e, significativamente, attività artigianali tradizionalmente femminili come il merletto e il ricamo.

Un elemento di rilievo in questo panorama culturale fu la fondazione dell’associazione Aemilia Ars, sotto la direzione di Rubbiani, che divenne il punto di riferimento della cultura bolognese. L’associazione rappresentò l’unico esempio in Italia di un centro di incontro tra artisti e artigiani dediti a vari settori dell’arte applicata. A Bologna si sviluppò inoltre una scuola grafica di notevole qualità, in particolare grazie alla rivista Italia Ride, che, pur avendo avuto una breve vita di soli 26 numeri, si distinse per il suo livello grafico e illustrativo, ponendosi alla pari con le riviste più prestigiose d’Europa.

Nonostante questi sviluppi, l’architettura bolognese dell’epoca non rispecchiò appieno le innovazioni proposte dallo stile Liberty. Gli interessi neogotici continuarono a prevalere, e non emerse una figura in grado di rinnovare il linguaggio architettonico e inserirsi efficacemente nel movimento modernista. Un’eccezione interessante fu rappresentata dall’architetto Paolo Sironi, che, pur provenendo da Milano e avendo studiato a Parigi, realizzò una serie di ville a partire dal 1905 in via Audinot. Queste ville si rivelano come esempi precoci di architettura Liberty, dove Sironi, in particolare negli esterni, riuscì a fondere il linguaggio del modernismo con le tradizioni locali, utilizzando materiali come il cotto, la ceramica e il ferro battuto. Tuttavia, le sue opere, sebbene raffinate e influenzate dalle grandi figure europee come Horta e Hoffmann, non ebbero un impatto duraturo sull’architettura bolognese.

Nel contesto bolognese, l’architettura più significativa di questi anni si trova nel palazzo Majani di Sezanne e nel palazzo Alberani, esempi che si inseriscono nel filone dell’architettura eclettica e storicista che caratterizzò la città. Tuttavia, verso il 1910, si assistette alla costruzione di edifici più monumentali e goffi, come quelli di via Irnerio, che riflettevano una mentalità conservatrice e una resistenza alle novità, tipiche di una provincia agraria che tendeva a rimanere ancorata a tradizioni consolidate.

Anche in Romagna, la cultura Liberty ebbe difficoltà a diffondersi. Lungo l’asse della via Emilia, si trovano esempi di architettura che giungono in ritardo rispetto alle principali città europee e italiane. In Romagna, infatti, la cultura Liberty si fece strada con notevole ritardo e, quando vi giunse, era contaminata da elementi della retorica novecentista. Un caso isolato di Liberty a Imola è rappresentato dall’Asilo di Infanzia progettato da Mirri, dove l’uso del cotto e delle figure di bambini nell’architettura esprime un gusto tenero e tipicamente moraviano. A Faenza, invece, si sviluppò il “cenacolo baccariniano”, un gruppo artistico che mescolava il simbolismo di Baccarini, il crepuscolarismo di Ugonia e la leggerezza di Nonni, ma che restò chiuso in se stesso, senza influenze esterne. Nella stessa Faenza, tuttavia, si riscontrano esempi più tipici di architettura neogotica, come una palazzina progettata da Casanova di fronte al Duomo, che mostra la difficoltà della città ad abbandonare i tradizionalismi.

Nelle città principali della Romagna, come Forlì, Rimini e Ravenna, la mentalità conservatrice era ancora più radicata, e l’architettura rimaneva legata principalmente alle conquiste sociali e al loro manifestarsi attraverso forme tradizionali. Il contrasto con Milano e le grandi città industrializzate non poteva essere più marcato, e la resistenza al Liberty era un riflesso di una ricchezza provinciale che non sentiva la necessità di rispondere alle sollecitazioni della modernità. Tuttavia, un’eccezione va fatta per i territori dell’Emilia nord-occidentale, dove la presenza di industrie locali per la produzione di materiali edilizi favorì l’adozione di decorazioni in stile Liberty, specialmente in cemento e cotto. Nonostante ciò, queste applicazioni non modificarono mai in modo significativo le strutture tradizionali degli edifici, e il Liberty in questa area si mantenne sempre nell’ambito delle mode locali, tardivamente adottate.

In generale, il Liberty in Emilia Romagna si manifestò come un fenomeno tardivo, mai aggressivo, eppure capace di lasciare tracce discrete ma significative nella storia architettonica e culturale della regione. Lontano dagli eccessi tipici delle grandi città industrializzate, il Liberty in Emilia Romagna racconta la storia di un mondo provinciale che cercava di modernizzarsi senza mai rinunciare ai propri legami con il passato.

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